The New York Times
26.07.2011
http://www.nytimes.com/2011/07/27/world/middleeast/27swim.html?_r=2&ref=globa-home
Dove le politiche sono complicate, semplici gioie sulla spiaggia.
di Ethan Bronner
Tel Aviv – Nervose, in un primo momento, le donne e le ragazze sono poi entrate in mare con gli occhi sgranati dal piacere, sorridenti, lanciando spruzzi e poi prendendosi per mano al momento di venire investite dalle onde, con la testa buttata indietro e, infine, ridendo di gioia.
La maggior parte non aveva mai visto il mare prima dall’ora.
Erano donne palestinesi che venivano dalla parte meridionale della West Bank, che non ha alcun sbocco sul mare al quale Israele non permette loro di accedere. Insieme alle circa dieci donne israeliane che le hanno portate in spiaggia, correvano il rischio di procedimenti penali. E in ciò, di fatto, consisteva il punto centrale della questione: protestare contro quelle che loro come le loro ospiti considerano leggi ingiuste.
Nel solco stridente delle relazioni israelo-palestinesi – nessuna trattativa, accuse reciproche, aumento delle distanze e disumanizzazione – questa escursione illegale è diventato un raro evento che ha unito il più semplice dei piaceri con la politica più complessa. Ha messo in evidenza il perché qui la coesistenza è difficile, ma anche il perché da entrambe le parti ci sono persone che non vi hanno rinunciato.
“Ciò che stiamo facendo non cambierà la situazione,” ha detto Hanna Rubinstein che ha fatto un viaggio da Haifa a Tel Aviv per partecipare. “Ma è un’attività in più per opporsi all’occupazione. Nel futuro, un giorno, la gente domanderà, com’è stato nei caso dei tedeschi: ‘Lo sapevi?’ e io avrò la possibilità di affermare, ‘Sì, lo sapevo, e mi sono data da fare’.”
Escursioni di questo tipo hanno avuto inizio un anno fa a seguito dell’idea di una israeliana e si sono tramutate in un piccolo, ma determinato, movimento di disobbedienza civile.
Ilana Hammerman, scrittrice, traduttrice e redattrice, stava trascorrendo del tempo nella West Bank per imparare l’arabo quando una ragazza le disse di essere disposta di far di tutto pur di uscire, anche se solo per un giorno. La signora Hammerman, una vedova di 66 anni con un figlio adulto, decise di portarla clandestinamente al mare. Il viaggio che ne è seguito, raccontato in un articolo che scrisse per l‘inserto settimanale del quotidiano Haaretz, spinse altre donne israeliane ad invitarla per parlare, e ciò portò alla creazione di un gruppo chiamato Noi Non Obbediremo. La cosa indusse anche un’organizzazione di destra a denunciarla alla polizia, che la convocò per interrogarla.
In un annuncio sul giornale, il gruppo delle donne dichiarò: “Non possiamo esprimere il nostro assenso alla legittimità della Legge per l’Ingresso in Israele, che consente a qualsiasi israeliano e a qualsiasi ebreo di spostarsi liberamente in tutte le zone poste tra il Mediterraneo e il fiume Giordano, mentre priva i palestinesi di questo stesso diritto. Non hanno la possibilità di muoversi liberamente all’interno dei Territori Occupati come pure non possono recarsi attraverso la Linea Verde in centri urbani o in città dove sono profondamente radicate le loro famiglie, la loro nazione e le loro tradizioni.
“Sia loro che noi, comuni cittadini, abbiamo compiuto questo passo con mente chiara e risoluta. In tal modo abbiamo avuto il privilegio di vivere uno dei giorni più belli ed emozionanti della nostra vita, incontrando e facendo amicizia con le nostre coraggiose vicine palestinesi, ed essere insieme a loro, anche se solo per un giorno, delle donne libere.”
La polizia ha interrogato 28 israeliane e i loro casi sono ancora pendenti. Fino a ora nessuna delle donne o delle ragazze palestinesi è stata fermata o interrogata dalla polizia.
La gita al mare della scorsa settimana ha seguito uno schema: le donne palestinesi sono andate travestite, il che ha voluto dire togliersi degli abiti piuttosto che coprirsi. Erano sedute nei sedili posteriori delle automobili israeliane guidate da donne ebree di mezza età e si erano tolte i veli e le vesti lunghe. Quando l’auto attraversò un checkpoint dell’esercito israeliano, tutte fecero solo un cenno di saluto.
In precedenza, nella casa di una delle donne palestinesi che sta mettendo su un asilo, le israeliane avevano sistemato giocattoli ed attrezzature. Le avevano pure aiutate in casi di problemi di salute o legali.
L’esercito di Israele che, per prevenire il terrorismo in un periodo di rivolte violente, ha iniziato due decenni fa a limitare gli spostamenti dei palestinesi in Israele, ha la responsabilità della concessione dei permessi per le visite palestinesi in Israele. Quest’anno ne verranno rilasciati circa 60.000, un numero doppio di quello del 2010, ma ancora una quantità simbolica per una popolazione di 2,5 milioni di persone. La signora Hammerman considera i permessi come pratiche di burocrati colonialisti – alle quali ci si deve opporre, e che non devono essere assecondate.
Altri l’hanno attaccata perchè seleziona e sceglie a quali leggi vorrà o non vorrà attenersi.
Le ospiti palestinesi sono accompagnate da storie complesse. Nella maggior parte delle loro famiglie, prima o poi, gli uomini sono stati cacciati in prigione. Ad esempio, Manal, che non era mai stata al mare prima, è una madre 36enne con tre figli e tuttora incinta; cinque fratelli sono nelle carceri israeliane, mentre un altro è stato ucciso dopo essere penetrato in un’università religiosa di coloni armato di coltello.
Portava con se uno stridore non sorprendente. “Tutto questo è nostro,” diceva a Tel Aviv. Non tornò a casa sionista, ma nel corso della giornata il suo punto di vista sembrò svilupparsi in modo più strutturato - o meno sicuro – in quanto si trovò in agio in compagnia di donne israeliane che pure dichiaravano di avere una patria in questa terra.
Un’altra ospite vive in un campo profughi con marito e figli. La famiglia del marito non approva le sue visite (“’Come puoi stare con delle ebree?’ Mi domandano: ‘Sei una collaboratrice?’”), ma non ha nascosto di provare un sollievo a lasciare il campo sovraffollato per un giorno per divertirsi con amiche.
Le gite al mare – sette fino ad ora – hanno prodotto alcuni momenti di tensione. Un tentativo di suscitare interesse in una biblioteca universitaria ha fatto fiasco. Un invito a trascorrere la notte fuori ha incontrato il rifiuto da parte dei mariti e padri palestinesi. La cucina casalinga israeliana non ha suscitato grande interesse. E la presenza di un poliziotto su una spiaggia prevalentemente ebraica ha reso tutte nervose.
Così, per quest’ultima escursione è stata scelta la spiaggia di Jaffa che è frequentata da arabi israeliani. Nessuno ha notato le turiste.
La cena è stata una sorpresa. Hagit Aharoni, psicoterapeuta e moglie del celebre chef Yisrael Aharoni, fa parte del gruppo organizzatore, così le frequentatrici della spiaggia hanno cenato sul tetto della casa degli Aharoni, cinque piani al di sopra dell’elegante Boulevard Rotschild, dove sono piantate al momento le centinaia di tende degli israeliani arrabbiati per il costo elevato delle abitazioni. Le ospiti hanno apprezzato molto la cucina di mister Aharoni. Hanno acceso sigarette – una cosa che a casa non possono fare in pubblico – e hanno messo su della gioiosa musica palestinese. Mentre il sole rosa tramontava sul Mediterraneo, hanno danzato con le amiche israeliane.
Alla signora Aharoni è stato chiesto il suo pensiero al riguardo. “Per 44 anni,” ha replicato. “Abbiamo occupato un altro paese. Ne ho 53, il che significa che per la maggior parte della mia vita sono stata un’occupante. Non lo voglio essere . Sono partecipe di un atto illegale di disobbedienza. Non sono Rosa Parks, ma l’ammiro perché ha avuto il coraggio di rompere con una legge che non era giusta.”
(tradotto da mariano mingarelli)