La sofferenza di quasi un milione di arresti

Haaretz.com
28.02.2013

http://www.haaretz.com/opinion/the-pain-of-almost-a-million-arrests.premium-1.506216

 

La sofferenza di quasi un milione di arresti

 
Novecentomila. Secondo il New York Times tale è il numero dei cittadini palestinesi arrestati e imprigionati nelle carceri israeliana dall’inizio dell’occupazione. Quasi un milione di persone.

 

di Gideon Levy

 

Tale valutazione potrebbe essere un po’ alta; alcuni affermano che si tratta di “soli” 600.000. Alla fin fine non c’è un numero esatto. Ma l’immagine generale è chiara e agghiacciante: Quando la gente afferma che Israele imprigiona il popolo palestinese, questo è ciò che vogliono dire: l’incarcerazione fisica, concreta, sovraffollata e straziante di un popolo in una prigione. Non lo sono solo i checkpoint, la barriera di separazione e le barriere psicologiche, ma anch’essa è reale.
                   

 

Centinaia di migliaia di palestinesi che vivono sotto occupazione hanno sopportato una tale esperienza, anche se solo una volta nella loro vita. Tra i circa quattro milioni di abitanti della West Bank e della Striscia di Gaza attuali, centinaia di migliaia di persone portano cicatrici fisiche e psicosomatiche e recano con sé il ricordo della loro incarcerazione.

 

Lo stesso fanno milioni di altri – i componenti delle loro famiglie. Circa 4.500 palestinesi sono attualmente in carcere. Nei territori quasi ogni casa ha un membro della famiglia che è stato arrestato. Ogni famiglia ha un prigioniero, o uno che è stato rilasciato.

 

Il termine della detenzione potrebbe essere di decenni – ci sono ancora 123 prigionieri da prima della firma degli Accordi di Oslo – o potrebbe essere una questione di soli pochi giorni. Di solito il tutto ha inizio con una brutale invasione dell’abitazione, quasi sempre a notte fonda, in presenza della moglie, dei genitori e dei figli, traumatizzati tirati fuori dal sonno e tesi per il destino del loro amato umiliato.

 

Il tutto continua con il duro, scoccante interrogatorio da parte dello Shin Bet. Poi vengono i giorni, mesi e anni in condizioni difficoltose senz’alcuna conversazione telefonica, talvolta per anni e anni senz’alcuna persona in visita. Per i prigionieri e le loro famiglie è sempre un’esperienza umiliante.

 

Ci sono stati anni in cui orrendi metodi di tortura facevano parte del menù di atrocità che Israele ha fatto scontare al popolo palestinese. Duecentotre persone sono morte in carcere, la maggior parte sotto tortura. Per lo più essa è cessata nel 1999 per decisione dell’Alta Corte di Giustizia, che ha posto un freno alla tortura da parte dei servizi di sicurezza, dichiarando illegali molte delle pratiche.

 

Ma anche oggi i metodi di arresto, interrogatorio e incarcerazione sono intollerabili. Anche se alcuni dei prigionieri palestinesi sono stati arrestati per interventi omicidi di terrorismo, la maggior parte di loro è in prigione per attività politica. Molti sono stati incarcerati, talvolta per anni, senza processo.

 

Il sistema della giustizia militare che ha deciso sul destino di centinaia di migliaia di persone non merita che gli venga attribuito il termine “giustizia”. Tutte le brevi visite a un tribunale militare e tutti i protocolli lo stanno a dimostrare alla stessa stregua di quanto lo potrebbero fare migliaia di testimoni. Udienze brevi, talvolta senza un’adeguata traduzione; prove che non sono affatto prove; testimoni incriminanti tratti da collaborazionisti e informatori  di dubbia reputazione; giudici tra i quali non tutti sono giuristi; interrogatori crudeli che portano a false confessioni; immunità che nega agli imputati la possibilità di ricevere una difesa adeguata, e punizioni draconiane.

 

C’è di tutto là, tra la prigione di Jalame nel nord e il carcere di Etzion a sud – di tutto fuorché la giustizia. Lo prova il numero inquietante di prigionieri. Dopo tutto, nessuna persona ragionevole può pensare seriamente che un intero popolo meriti di essere sbattuto in carcere. Il disprezzo degli israeliani per le vite dei palestinesi include pure il disprezzo per la loro libertà.

 

La società israeliana non ha mai capito il significato psicologico profondo della questione dei prigionieri nella società palestinese, ma non ha neppure cercato di farlo. Anche se c’è ancora qualcuno in Israele che comprende la sofferenza inflitta dai checkpoint e dai crimini dei coloni, non ha mai  manifestato interesse nei confronti dei prigionieri , e certamente nessuna solidarietà.

 

Questo è sorprendente in una società che è stata tanto sconvolta dal destino di un singolo prigioniero, Gilad Shalit, e gli ha dimostrato una solidarietà tanto forte. Ma la stessa società non comincia ancora a capire la profondità della sofferenza dei palestinesi per le decine di migliaia di persone del loro popolo che sono in carcere.

 

Qui al lavoro c’è anche un processo di disumanizzazione. Una madre israeliana che è in ansia per il proprio figlio viene trattata diversamente da una madre palestinese che è ugualmente preoccupata. Ma ciò non dovrebbe sorprendere: se un bambino ucciso per nulla da un cecchino non genera alcun interesse, perché ce lo dovrebbe suscitare un prigioniero?

 

Per gli israeliani è sufficiente guardare i report propagandistici  che mostrano prigionieri che fanno un party, per scatenare immediatamente uno scandalo per le condizioni di “tipo Hilton” nelle carceri. E’ sufficiente che venga detto loro che tutti i prigionieri sono “abominevoli assassini”, tutte le centinaia di migliaia, perché non disturbino le loro coscienze per loro. Può darsi che almeno le sorprendenti statistiche di 800.000 faranno pensare qualcuno.

 

(tradotto da mariano mingarelli)