The Electronic Intifada
11.09.2013
http://electronicintifada.net/content/israeli-occupation-leaves-psychological-not-just-physical-scars/12759
L’occupazione israeliana lascia cicatrici psicologiche, non solo fisiche.
La Palestina è una nazione dove hanno lasciato un’impronta profonda il suo paesaggio arido e la storia in quanto terra santa. Tuttavia, fin dal 1948, è segnata pure dalla cicatrice dell’occupazione.
di Alia Al Ghussain
Un muro di separazione, brutto e grigio, ora rattrista la terra sulla quale molti credono abbia camminato Gesù. E’ forse una delle più sacrileghe e grottesche strutture attualmente esistenti.
Questo muro è l’incarnazione dell’occupazione illegale della West Bank. Serve a ricordare ogni giorno, in ogni luogo, che i palestinesi non sono ancora liberi, nonostante le promesse fatte a Oslo a metà degli anni ’90 e poi a Camp David.
In seno ai parametri del muro esiste, tuttavia, una più sottile (e forse più pregiudizievole) forma di occupazione.
Nella West Bank, la città di Nablus si adagia tra due colline. Il centro della città è perennemente animato, con la gente che se ne va per i propri affari di ogni giorno, che corre per incombenze ordinarie.
A prima vista, Nablus non ha nulla di particolare. Per molti versi è una grande meta turistica, ha un centro storico vivace, gente cordiale e un ambiente splendido. E’ facile dimenticare, o essere ignari, del fatto che Nablus è una città occupata.
Costantemente sotto osservazione
In realtà, l’occupazione circonda la città. Da un lato c’è una colonia abitata da sionisti radicali.. Dall’altra, vi è una base militare israeliana che in silenzio sorveglia la città. Nablus viene costantemente osservata.
Mentre l’impatto dell’occupazione sul paesaggio è relativamente indefinibile, quello psicologico sugli abitanti di Nablus è significativo. Molti hanno perduto amici o familiari a causa dei coloni o dell’esercito.
Un residente, che chiameremo N, mi ha descritto come un suo amico è stato ucciso dall’esercito su una delle colline. N e i suoi amici hanno dovuto aspettare un’intera giornata per andare a prendere il suo corpo e solo allora con l’aiuto di attivisti internazionali le cui meste richieste, urlate da megafoni, sono state probabilmente le sole cose che hanno impedito a N e ai suoi amici di andare incontro allo stesso destino del corpo che essi cercavano di recuperare.
Quando cala la notte, l’occupazione da osservazione si fa ancor più viscerale. A mezzanotte circa ( anche se a volte può succedere prima delle 10:30 di sera) i coloni (spalleggiati dall’esercito israeliano) calano in città.
Essi vengono affrontati da giovani palestinesi, che tirano loro pietre. Viene loro risposto con candelotti di gas lacrimogeno, proiettili veri e granate assordanti.
Si tratta di un’operazione per rivendicare simbolicamente e difendere il posto. L’esercito e i coloni invadono per ricordare agli abitanti di Nablus che essi non sono al sicuro.
Non appena cala la notte, Nablus diviene uno spazio conteso. Durante le battaglie notturne, non viene guadagnato o perso alcun terreno. Lo scopo è semplicemente quello di invadere. Di affermare il controllo. Serve a ricordare che durante il giorno la vita continua, come se fosse normale, solo perché l’esercito israeliano permette che sia così.
L’invasione dello spazio è una forma di umiliazione, per rimpiazzare i checkpoint e la presenza continua dei soldati israeliani. E’ come un’aggressione, sentita da tutti a Nablus, che serve come promemoria della loro sottomissione.
Un’umiliazione di questo tipo è presente quasi ovunque nella West Bank.
Da nessuna parte però questa mortificazione è più presente che nella città meridionale di Hebron. Divisa in due parti, la città è assoggettata ad alcuni dei coloni più violenti e radicali presenti all’interno della West Bank.
Empio
Di conseguenza, Hebron è nota per i segni estremamente visibili dell’apartheid; posti di blocco, strade interdette ai palestinesi, le case che devono avere le porte aperte tutto il giorno e tutta la notte nel caso in cui i soldati israeliani abbiano bisogno di portarsi sul tetto per occupare una posizione maggiormente vantaggiosa.
Ciononostante, questi non sono i segni più empi dell’occupazione. Sono le umiliazioni quotidiane, effettuate per mano dell’esercito israeliano, quelle che rappresentano l’aspetto più ripugnante della situazione a Hebron.
Per accedere alla Moschea di Ibrahim i palestinesi devono passare attraverso una porta girevole. Di fatto si tratta di un checkpoint.
La gente passa attraverso le fauci di questa porta in fila indiana, trascinandosi come bestiame, sotto l’occhio vigile di un soldato incredibilmente giovane. Di tanto in tanto la porta si blocca ( o è volutamente chiusa dai soldati, a seconda di chi si crede).
Tutti devono aspettare che riprenda a funzionare, tenuti in uno stato comatoso. E’ un’esperienza incredibilmente disumanizzante. Si è soli. Si è guardati.
L’umiliazione sofferta dai palestinesi della West Bank e di Gaza è la più brutta forma di violenza strutturale. Rafforza il messaggio, giorno dopo giorno, che sono un popolo soggiogato.
E’ del tutto intenzionale, una tattica di guerra psicologica che viene utilizzata dall’esercito israeliano, più che lo sfortunato effetto collaterale di misure necessarie di sicurezza. La capacità di un soldato israeliano 18enne di scombussolare la giornata di una famiglia palestinese rafforza la gerarchia etnica che pone gli israeliani al di sopra dei palestinesi. E deifica le strutture di potere dello stato di Israele.
Trauma
Dovrebbe riconoscersi che questa è una forma di guerra psicologica – L’occupazione è un’occupazione della mente tanto quanto della terra. Lo scopo è quello di creare un popolo sottomesso spezzando la sua carica vitale.
Ci sono segni di una psiche collettiva incrinata a Hebron, in particolar modo tra i bambini. Un ragazzino di 11 anni mi ha raccontato la storia di come ad uno dei checkpoint militari della città i soldati israeliani avevano tardato a lasciar passare sua madre con il fratellino ammalato.
Cinque minuti prima che la facessero passare, il neonato era morto. Ha raccontato la storia in un tono di completa disperazione.
Ha concluso dicendo che non era importato a nessuno perché la sua famiglia era palestinese.
Nel 2011, Médecins Sans Frontières e gruppi palestinesi per la salute mentale hanno riferito che a Nablus, in particolare, gli elevati livelli di disordini da ansia tra i bambini sono da attribuirsi alle croniche molestie dei coloni e alle incursioni dei militari israeliani. E altrove nella West Bank, hanno affermato i gruppi, i bambini soffrono “nella stragrande maggioranza” di disordini da stress postraumatici.
C’è bisogno di una ferma solidarietà con la lotta dei palestinesi più che di andare a una manifestazione dopo le incursioni aeree lanciate da Israele su Gaza o l’attacco a un campo profughi nella West Bank. Resta la necessità di attirare l’attenzione sulla violenza strutturale dell’occupazione israeliana – si tratta proprio di una forma di violenza, altrettanto moralmente riprovevole del bombardamento della popolazione civile
Non si deve focalizzare la lotta esclusivamente sul recupero fisico della Palestina. Questa non è semplicemente una battaglia per la terra, è una battaglia contro l’oppressione della mente tanto quanto del corpo
Alia Al Ghussain è un’anglo-araba nata e cresciuta a Dubai. Sta perseguendo un master in diritti umani presso l’Università del Sussex
(tradotto da mariano mingarelli)