The Electronic Intifada
19.09.2013
http://electronicintifada.net/blogs/ali-abunimah/where-have-23-billion-spent-oslo-peace-process-gone
Dove sono andati spesi i 23 miliardi di dollari del “processo di pace” di Oslo?
“Servendosi di un qualsiasi criterio economico o politico, i palestinesi stanno molto peggio oggi di quanto non stessero nel 1993.”
di Ali Abunimah
Questa è la sorprendente ma incontrovertibile conclusione raggiunta da Alaa Tartir e Jeremy Wildeman in una nuova sintesi politica riportata da Al-Shabaka sugli effetti devastanti del neoliberismo – del libero mercato radicale – delle politiche economiche e delle strategie di assistenza fallite in Palestina dacché in questo mese di 20 anni fa vennero firmati gli accordi di Oslo.
Tartir e Wildeman notano che:
Dalla Dichiarazione dei Principi di Oslo del 1993, la comunità dei donatori ha investito più di 23 miliardi di dollari nei Territori Palestinesi Occupati (OPT) in “pace e sviluppo”, rendendoli beneficiari di uno dei più elevati sussidi non militari pro capite del mondo.Tuttavia gli aiuti non hanno portato pace, sviluppo o sicurezza al popolo palestinese, per non parlare di giustizia.
Eppure, dopo tutto questo:
Secondo la definizione basata sul reddito di povertà, nel 2009 e 2010 il 50 % dei palestinesi viveva in povertà, il 38% nella West Bank e il 70% a Gaza.Il Programma Alimentare Mondiale ha rilevato che il 50% delle famiglie palestinesi soffre di insicurezza alimentare. Dal 2009, la disoccupazione si è bloccata a circa il 30%, con il 47% di disoccupati a Gaza nel 2010 e il 20% nella West Bank. Il tasso di disoccupazione dei giovani palestinesi al di sotto dei 30 anni è a un particolarmente allarmante 43 %. La sperequazione nei redditi e nelle opportunità continua ad ampliarsi non solo tra la West Bank e Gaza, ma anche all’interno della West Bank stessa.
C’è, soprattutto a Ramallah, una visibile classe superiore che indulge nell’ostentazione e nel lauto consumo, mentre la stragrande maggioranza dei palestinesi sprofonda nella miseria.
In una pubblicazione che rivela “20 Facts: 20 Years Since the Oslo Accords”, Oxfam ha descritto in modo dettagliato proprio come sia diventata brutta la situazione per milioni di palestinesi
Matrimonio forzato
Questa povertà non è casuale in questo “processo di pace”, ma ne è parte integrante. La camicia di forza degli accordi economici che l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) ha firmato dopo il 1993 ha “sostanzialmente legalizzato il matrimonio forzato delle due economie dal 1967” , come l’ha posto un negoziatore israeliano.
Questo è sempre stato un matrimonio tra diseguali, con Israele che usa il suo soverchiante potere per controllare, sfruttare e pervadere l’economia palestinese, mentre pone ostacoli insormontabili sulla strada dello sviluppo economico palestinese.
Aiutato e spalleggiato
Tutto questo è stato puntellato dal sostegno ideologico e finanziario della “comunità internazionale”
Agli inizi del processo di Oslo, la Banca Mondiale elaborò un piano economico per i palestinesi intitolato un Investimento per la Pace e oggigiorno le sue prescrizioni vengono ancora eseguite anche se riconfezionate col nuovo marchio di fabbrica di “Fayyaddismo”.
Un Investimento per la Pace è un piano di politica neoliberista che affianca altri programmi sviluppati da istituzioni finanziarie internazionali per il mondo in via di sviluppo degli anni ’90. Sulla base di elementi del giudizio convenzionale della politica del Consenso di Washington e del dopo-Washington, non ha tenuto conto del fatto che i territori palestinesi sono sotto occupazione militare da lunga data, cosa che ha conferito al neoliberismo negli OPT una sua propria specificità e peculiarità. La logica filosofica del piano della Banca Mondiale è stata quella di migliorare la qualità della vita dei palestinesi e di incoraggiarli a partecipare al processo di pace con l’incassare i dividendi della pace. Questa logica resta invariata oggi: investire più soldi per far sì che i palestinesi si sentano economicamente meglio per agevolare loro il compromesso politico.
Questa è la chiave: una sensazione, o un’illusione di prosperità è stata destinata sempre allo scopo di tacitare i palestinesi, una sorta di “dividendo della pace” al posto di una pace effettiva basata sulla giustizia che includa il ripristino dei loro diritti fondamentali.
Eppure, i palestinesi non hanno ottenuto nessuno dei loro diritti, né alcun dividendo della pace.
Funzione del movimento di solidarietà internazionale
Vent’anni dopo Oslo, che cosa si può fare per apportare un cambiamento a questa triste realtà?
Tartir e Wildeman forniscono alcuni suggerimenti concreti che includono che l’assistenza “ deve essere di sostegno all’autodeterminazione palestinese e di aiuto ai palestinesi che resistono al progetto coloniale. Essa non deve sovvenzionare l’occupazione israeliana.”
I donatori, inoltre, “è necessario che si allineino alle richieste dei movimenti nazionali palestinesi, come quello di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS).”
Ciò assomiglia alla proposta fatta lo scorso anno in un articolo da Nora Lester Murad, fondatrice dell’Associazione Dalia.
Si tratta di idee valide ma è improbabile che potranno mai essere adottate dal vertice.
Ciò suggerisce che il movimento di solidarietà con la Palestina avrà bisogno di ampliare i suoi obiettivi per fare pressione su agenzie di “aiuti” perché per prima cosa non facciano nulla di male, poi, eventualmente, realizzino effettivamente qualcosa di buono.
Altre interpretazioni di Oslo
In coincidenza con il 20° anniversario degli accordi di Oslo, che hanno creato l’Autorità Palestinese e messo in moto l’interminabile “processo di Pace”, ci sono stati diversi altri interventi interessanti.
L’intellettuale palestinese Haidar Eid, che scrive da Gaza per Al Jazeera English, fornisce una critica pungente del lascito e della logica di Oslo che sono ancora vive nella ricerca di una “soluzione a due-Stati”:
per mirare a creare la soluzione palestinese a due-Stati si deve mirare a creare una falsa coscienza sotto la guida di un’intellighenzia assimilata, al cui interno alcuni hanno precedenti trascorsi rivoluzionari. Cantare gli slogan di “soluzione a due stati”, “due stati per due popoli”, “ritorno ai confini del 1967”, o anche “una tregua a lungo termine” come proposto da Hamas – è destinato a garantire la subordinazione e l’arrendevolezza dei palestinesi. Liquidato è il diritto al ritorno di sei milioni di profughi e il loro risarcimento e i diritti della popolazione indigena della Palestina del 1948, al momento cittadini di seconda classe in Israele.
“De-Osloizzazione”
Eppure Eid vede segnali positivi nel rilancio di una lotta palestinese al di fuori dei confini ideologici e politici del vecchio movimento nazionale i cui leader hanno firmato gli accordi di Oslo:
Essere consapevoli della corruzione dell’Autorità Palestinese e dell’enorme divario di classe che gli Accordi di Oslo hanno creato è sicuramente l’inizio della de-Osloizzazione rappresentata dalla promulgazione dell’appello del 2005 per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni – un appello che è stato avallato da quasi tutta la società civile palestinese - e dall’aumento delle richieste di uno stato secolare e democratico nella Palestina storica, un solo stato per tutti i suoi cittadini, indipendentemente dal sostrato religioso o etnico.
Le radici del tradimento
Nella tradizione di Edward Said, molti commentatori, come Eid, considerano Oslo come un tradimento e una disastrosa deviazione dalla lotta per i diritti dei palestinesi.
E’ divenuto comune considerare il consenso dell’OLP alle condizioni altamente sfavorevoli di Oslo come costretto della debolezza storica dell’organizzazione dopo la sua espulsione dal Libano nel 1982 e poi dal suo isolamento finanziario da parte dei regimi del Golfo Arabico adirati per l’abbraccio di Saddam Hussein da parte di Yasser Arafat a seguito dell’invasione del Kuwait del 1990 da parte dell’Iraq.
Ma in un altro breve articolo su Al-Shabaka, Osamah Khalil, getta una nuova luce affascinante su ciò che ha portato fino a Oslo. Attingendo da documenti diplomatici statunitensi declassificati. Khalil sostiene:
che le radici di Oslo possono essere ricondotte all’indomani della guerra dell’ottobre del 1973. [Khalil] dimostra che c’era la volontà dell’OLP di fare notevoli concessioni prima di intraprendere i negoziati o di venir riconosciuta dagli Stati Uniti. Queste concessioni non si sono verificate quando l’organizzazione era al suo punto più basso, ma piuttosto dopo i suoi più importanti riconoscimenti diplomatici, che le assicurarono il riconoscimento da parte degli Stati Uniti e della Lega Araba di “rappresentante unico e legittimo del popolo palestinese”.
Leggi l’analisi completa di Khalil su Al-Shabaka: http://al-shabaka.org/policy-brief/negotiations/oslos-roots-kissinger-plo-and-peace-process
Come l’occupazione si è travestita da processo di pace
Per finire, ho condiviso alcune delle mie riflessioni su Oslo in un’intervista con Eric Ruder di Socialist Worker:
Qui devo dare credito agli israeliani, perché non hanno mai detto che questo [Oslo] si sarebbe concluso con uno stato palestinese. Non hanno mai affermato che avrebbero rimosso le colonie. Non hanno mai dichiarato che avrebbero fermato la costruzione delle stesse. Quindi, in un certo senso, gli israeliani sono stati gli unici ad essere chiari su ciò che non avrebbero fatto – sono stati bravi per le loro parole.
Hanno continuato a costruire colonie, hanno continuato a prendere terra e sono stati tutti gli altri che o illudevano se stessi o ingannavano gli altri col suggerire che il “processo di Pace” avrebbe portato “sovranità” o “indipendenza”. Gli israeliani non l’hanno mai detto. E così doveva esserci un sacco di auto-inganno e un sacco di inganno da parte di altri.
Questo tentativo di inganno continuerà fino a che saranno tenuti in vita questo defunto “processo di pace” e i colloqui per una “soluzione a due stati”.
(tradotto da mariano mingarelli)