AlterNet.org
05.09.2013
http://www.alternet.org/progressive-wire/chomsky-middle-east-peace-talks-complete-farce
Negoziati inutili tra israeliani e palestinesi.
Solo cedendo a quella che a volte viene definita “ignoranza internazionale” si poteva credere che il processo di Oslo fosse la strada per la pace tra Israele e i palestinesi.
di Noam Chomsky
I negoziati in corso tra Israele e Palestina coincidono con il ventesimo anniversario degli accordi di Oslo. Una rapida occhiata a quegli accordi può aiutarci a capire lo scetticismo di oggi.
Nel settembre del 1993, l’allora presidente Clinton assisteva alla stretta di mano tra il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) Yasser Arafat sul prato della Casa Bianca. Avevano appena firmato la Dichiarazione dei principi per la risoluzione politica del conflitto israelo-palestinese (DOP), risultato degli incontri di Oslo promossi dal governo norvegese. I negoziati erano cominciati a Madrid nel novembre del 1991 sotto l’egida di Washington, uscita trionfante dalla prima Guerra del Golfo. Poi si erano fermati: la delegazione palestinese insisteva sulla necessità di fermare gli insediamenti illegali nei Territori Occupati.
L’amministrazione di George Bush senior diede il via ai negoziati di Madrid come “onesto mediatore”. La Dichiarazione del 1993 afferma esplicitamente che le richieste di Israele sarebbero state soddisfatte, ma taceva sui diritti nazionali palestinesi.
Era in linea con le idee di Tennis Ross, il principale consulente di Clinton siul Medio oriente, che ha partecipato in seguito ai negoziati di Camp David del 2000 ed è diventato consulente anche di Obama. Come spiegava Ross, Israele aveva delle necessità, mentre i palestinesi avevano solo bisogni, che ovviamente sono meno importanti.
L’articolo 1 della DOP afferma che il risultato finale del processo avrebbe dovuto essere “un accordo permanente basato sulle risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza”, in cui non si parla dei diritti dei palestinesi, fatta eccezione per un vago accenno a una “giusta soluzione del problema dei rifugiati”. Se il “processo di pace” fosse andato come diceva la DOP, i palestinesi avrebbero potuto dire addio a qualsiasi speranza di avere dei diritti nazionali nella Terra di Israele.
Altri articoli della Dichiarazione prevedevano l’estensione dell’autorità palestinese alla “Cisgiordania e alla Striscia di Gaza, tenendo conto di alcune questioni che saranno discusse nei negoziati per un accordo definitivo: Gerusalemme, gli insediamenti, le basi militari e i cittadini israeliani”, vale a dire fatta eccezione per tutto quello che contava.
Inoltre, Israele avrebbe continuato a “essere responsabile per la sicurezza esterna, la sicurezza interna e l’ordine pubblico negli insediamenti. Le forze militari e i civili israeliani potranno continuare a usare liberamente le strade nella Striscia di Gaza e nella regione di Gerico”, le due zone dalle quali Israele si era impegnato a ritirarsi. In pratica non ci sarebbe stato nessun cambiamento significativo. Nella Dichiarazione non si parlava degli insediamenti, che erano alla base del conflitto e vanificavano ogni prospettiva di autodeterminazione della Palestina.
Solo sottoponendosi a quella che a volte viene definita “ignoranza internazionale”, si poteva credere che il processo di Oslo fosse la strada per la pace. Nonostante questo, veniva esaltato da tutti i commentatori occidentali.
All’apertura dei negoziati di Madrid, Danny Rubinstein, uno dei più informati analisti israeliani, predisse che Israele e gli Stati Uniti avrebbero accettato una qualche forma di “autonomia” palestinese, ma sarebbe stata come quella “dei prigionieri di guerra, che possono cucinare ‘liberamente’ i loro pasti e organizzare eventi culturali”. E aveva ragione. Il programma di insediamenti è stato portato avanti anche dopo Oslo, con la stessa intensità che aveva raggiunto nel 1992, e si è esteso ben oltre i confini della Grande Gerusalemme.
Agli accordi seguirono altri patti tra Israele e l’OLP, che chiarivano meglio i termini della presunta autonomia.
Dopo l’assassinio di Rabin, diventò primo ministro Shimon Peres, e nel 1995, quando lasciò l’incarico, assicurò alla stampa che uno stato palestinese non sarebbe mai esistito.
La studiosa norvegese Hilda Henriksen Waage ha scritto che “il processo di Oslo potrebbe essere un caso perfetto per studiare i difetti” del modello “della mediazione nei conflitti fortemente asimmetrici. C’è da chiedersi se questo modello possa mai funzionare”
Varrebbe la pena di riflettere su questa domanda, soprattutto visto che gli osservatori internazionali continuano a credere che sia possibile portare avanti trattative serie tra Israele e la Palestina sotto gli auspici degli Stati Uniti, che si sono confermati non certo “onesti mediatori”, ma partner di Tel Aviv.
Appena si sono aperti i negoziati attuali, Israele ha chiarito subito la sua posizione inserendo nella “lista delle priorità nazionali” i sussidi per gli insediamenti e presentando il progetto di una linea ferroviaria per collegarli meglio al resto del paese.
Obama ha nominato capo negoziatore Martin Indyk, uno stretto collaboratore di Dennis Ross, che ha sempre appoggiato Israele e dice che gli arabi non capiscono “l’idealismo” e la “generosità” di Washington.
I negoziati serviranno a coprire l’annessione da parte di Israele di altri territori e a risparmiare agli Stati Uniti altre situazioni imbarazzanti all’ONU.
L’unica cosa certa è che questi colloqui non saranno un passo avanti verso la pace.
(bt –Internazionale)