Al Jazeera.com
20.04.2013
http://www.aljazeera.com/indepth/opinion/2013/04/2013416134034777609.html
Diritti che ritornano
Come sempre quando si tratta di sionismo e Israele, la loro concezione dei diritti non è mai universale, ma sempre particolare.
di Joseph Massad
Fin dalla sua nascita, il progetto sionista è stato chiaro nei suoi obiettivi e nella strategia necessaria per il loro raggiungimento. Affinché gli ebrei colonizzassero le terre dei palestinesi e potessero istituire uno stato esclusivamente ebraico, insistevano gli strateghi sionisti, gli indigeni dovevano essere cacciati fuori dal paese. Per il sionismo, colonizzazione ed espulsione dovevano essere processi simultanei che non potevano essere separati: sono, infatti, la stessa cosa.
I palestinesi non hanno dimenticato i propri diritti e non vi hanno rinunciato e quelli di loro che rimangono in patria continuano ad essere saldi di fronte alle politiche coloniali di espulsione portate avanti da Israele. [AFP]
La colonizzazione come espulsione
Allo stesso tempo, in risposta alle obiezioni dei protestanti millenaristi restaurazionisti, il Sionismo insiste che gli ebrei europei invece di essere discendenti di europei convertiti al giudaismo, sono in realtà discendenti degli antichi ebrei che furono presumibilmente esiliati dai Romani nel 1 ° secolo d.C . Sulla base di questa doppia finzione il sionismo contesta il fatto che gli ebrei europei siano andati in Palestina per colonizzarla, poiché essi avevano il "diritto" di ritornare alla loro "patria" originale. Così la colonizzazione ebraica è la stessa cosa del "ritorno" ebraico in Palestina, così come è la stessa cosa dell'espulsione ebraica dei palestinesi dal paese.
Da quando il sionismo ha preso il controllo politico della Palestina, ha seguito due politiche per assicurarsi che il suo progetto coloniale andasse avanti senza ostacoli. Da un lato, ha insistito che i palestinesi espulsi non abbiano diritto al ritorno in Palestina ed ha bloccato con mezzi militari ogni loro tentativo di tornare mentre, contemporaneamente, ha continuato ad espellere il maggior numero possibile di quelli che sono rimasti; dall'altra parte, nel 1950 ha approvato una "Legge del Ritorno" per gli ebrei, dando così loro il diritto di colonizzare la Palestina presentandolo come un diritto di ricolonizzarla. Trasformare i diritti dei palestinesi a tornare nelle loro case e nella loro patria nei diritti degli ebrei europei a "ritornare" in Palestina è stata e continua ad essere la principale strategia politica, giuridica e ideologica del sionismo e della principale politica dello stato di Israele. Questo si traduce nell'unica formula politica su cui concordano sia i leader sionisti e israeliani che il popolo palestinese e cioè che la colonizzazione ebraica significa l’espulsione dei palestinesi e che il ritorno palestinese significa la decolonizzazione ebraica. Ciò su cui le due parti non sono d'accordo è su quale parte della formula vogliono far rispettare.
Sul trasferimento dei diritti da un popolo all'altro, Edward Said affermò che:
"La colonizzazione della Palestina ha sempre proceduto in modo ripetitivo: gli ebrei non soppiantavano, distruggevano, sconvolgevano una società nativa. Tale società portava in sé la stranezza che aveva rotto il modello di una sovranità ebraica presente da sessant'anni in quella Palestina che era decaduta per due millenni ... Il sionismo quindi aveva bonificato, redento, risistemato, ricostruito, realizzato la Palestina e l'egemonia ebraica su di essa. Israele era un ritorno alla situazione precedente, anche se i nuovi fatti avevano una somiglianza di gran lunga maggiore con i metodi e i successi del colonialismo europeo del XIX secolo che non con alcuni misteriosi antenati del primo secolo".
La diffusione da parte del sionismo dello slogan sulla Palestina coniato dal protestantesimo restaurazionista, "una terra senza popolo per un popolo senza terra" tradiva non solo il pio desiderio del sionismo, ma anche la sua comprensione che l’espulsione pianificata dei palestinesi non avrebbe raccolto il sostegno internazionale. Così lo slogan era una copertura consapevole della convinzione sionista che la Palestina fosse "una terra con una popolo immeritevole per un popolo meritevole senza terra". La rappresentazione dei palestinesi come popolo parassita che non aveva fatto nulla per migliorare la Palestina nel corso dei secoli e che avrebbe lasciato i terreni a riposo, porta il fondatore del sionismo, Theodor Herzl, ad esclamare, nel suo romanzo Alteneuland : "Se solo avessimo della gente(ebrei) qui" per risistemare la terra. Questo significa solo che i sionisti hanno preso in prestito l'idea di un popolo “parassita" dalle rappresentazioni antisemite degli ebrei europei e dalla corrispondente rappresentazione coloniale e razzista dei nativi di Americhe, Australia e Africa.
Pianificare l'espulsione
Nel corso dei decenni furono ideati molti piani sionisti per portare all'espulsione dei palestinesi, a partire dal semplice piano avanzato da Herzl, che propose l'espulsione dei contadini palestinesi dalle loro terre, dopo che i sionisti le avevano acquistate dai proprietari assenti, per la colonizzazione ebraica. Espropriare i contadini palestinesi delle loro terre, tuttavia, non sarebbe stato sufficiente; Herzl aveva capito che i palestinesi nel loro insieme dovevano essere completamente espropriati della loro terra d'origine affinché il sionismo potesse istituire le colonie ebraiche. Nel suo pamphlet del 1896 Der Judenstaat, Herzl spiegò:
"Un’infiltrazione [di ebrei ] è destinata a finire male. Continuerà fino al momento inevitabile in cui la popolazione nativa si sentirà minacciata e le forze di governo fermeranno un ulteriore afflusso di ebrei. L'immigrazione è quindi inutile a meno che non abbiamo il diritto sovrano di continuare tale immigrazione."
Per ottenere il governo del territorio, Herzl propose nei suoi diari che i coloni ebrei dovessero espropriare "dolcemente" le proprietà degli indigeni e
"cercare di spedire la popolazione senza un soldo di là del confine, procurando loro un lavoro nei paesi di arrivo e negando loro una qualsiasi occupazione nel nostro paese ... I possidenti verranno dalla nostra parte. Sia il processo di espropriazione che la rimozione dei poveri devono essere eseguiti con discrezione e circospezione ... Lasciate che i proprietari di immobili credano che ci stanno imbrogliando, ci vendano cose a più di quello che valgono. Salvo che non abbiamo intenzione di vendere loro qualcosa in cambio."
La comprensione di Herzl sarebbe filtrata nel movimento sionista e sarebbe stata adottata dai suoi seguaci sionisti che avrebbero eliminato ogni forma di futuro dissenso su questa materia. Nel 1923, parlando di resistenza palestinese e argomentando contro coloro che stavano proponendo un compromesso con i nativi, Vladimir Jabotinsky, il fondatore del sionismo revisionista, il rivale della principale corrente di pensiero sionista, aveva capito bene come la colonizzazione e l'espulsione fossero la stessa cosa:
"Ogni popolo nativo - è lo stesso se sono civili o selvaggi - vede il proprio paese come la propria patria nazionale di cui sarà sempre il padrone! non acconsentirà volontariamente non solo ad un nuovo padrone, ma neppure ad un nuovo partner e così è per gli arabi. Chi fra noi cerca dei compromessi cerca di convincerci che gli arabi sono degli sciocchi che possono essere ingannati ... [ e ] che abbandoneranno il loro diritto di nascita in Palestina per dei vantaggi culturali ed economici. Rifiuto categoricamente questa valutazione degli arabi palestinesi. Culturalmente sono 500 anni indietro rispetto a noi, spiritualmente non hanno la nostra resistenza o la nostra forza di volontà, ma con questo finiscono tutte le differenze interne ... essi considerano la Palestina con lo stesso amore istintivo e con lo stesso fervore con cui qualsiasi Azteco guardava al suo Messico o qualsiasi Sioux guardava la prateria ... questa fantasia infantile del nostro 'arabo-filo' viene da una sorta di disprezzo per il popolo arabo ... [ che ] questa razza [ è ] una marmaglia pronta ad essere corrotta o a vendere la propria terra d'origine per una rete ferroviaria."
Jabotinsky aveva capito bene che i palestinesi "non sono una marmaglia, ma una nazione ". A differenza di Herzl che pensava che il processo di espulsione dovesse essere effettuato "dolcemente" attraverso la dissimulazione, la strategia di Jabotinsky fu quella di espellere i palestinesi dalla loro terra con la forza militare. Egli dichiarò che "la colonizzazione sionista deve essere o conclusa o effettuata contro la volontà della popolazione autoctona”, concludendo che "il sionismo è una avventura di colonizzazione e quindi vince o perde sulla questione della forza armata." Mettendo da parte tutte le preoccupazioni etiche, nel 1939 concluse che:
« Non c'è scelta: gli arabi devono fare spazio agli ebrei di Eretz Israel Se è stato possibile trasferire i popoli baltici, è possibile anche spostare gli arabi palestinesi."
I dibattiti che i sionisti avrebbero avuto negli anni ‘20 e ‘30 su quello che è stato definito il "trasferimento" dei palestinesi sono ricchi di dettagli, ma la loro conclusione era inevitabile. Concordando con Jabotinsky, David Ben - Gurion, il capo dei coloni della principale corrente del sionismo, nel giugno del 1938 dichiarò: "Sostengo il trasferimento obbligatorio. Non ci vedo nulla di immorale.» La sua dichiarazione sarebbe stata seguita dalla politica adottata dall'Agenzia Ebraica (il principale organo sionista incaricato di promuovere la colonizzazione ebraica della Palestina), che nel mese di novembre del 1937 istituì il suo primo "Comitato di trasferimento di popolazione" per definire una strategia per l'espulsione forzata dei palestinesi .
Un membro chiave del comitato era Joseph Weitz, direttore del Dipartimento di colonizzazione dell'Agenzia Ebraica. Questo non fu certo casuale. Mentre la colonizzazione e l'espulsione sono parte della stessa politica, la visione e il ruolo di Weitz erano al centro di entrambi. Weitz articolò la questione in un modo diventato famoso :
"Detto tra noi deve essere chiaro che non c'è spazio per entrambi i popoli in questo paese. Non potremo raggiungere il nostro obiettivo se gli arabi sono in questo piccolo paese. Non c'è altro modo che trasferire gli arabi da qui ai paesi limitrofi - tutti loro. Non un villaggio, non una tribù deve essere risparmiata”.
L'Agenzia Ebraica avrebbe istituito un secondo "Comitato per il trasferimento degli Abitanti" nel 1941 e un terzo ancora durante la conquista sionista della Palestina nel maggio 1948 (sui Comitati di trasferimento , leggere l’importante libro Nur Masalha sull’espulsione dei palestinesi).
Tutta questa pianificazione sarebbe venuta a compimento nella forma della operazione di pulizia etnica portata avanti dall'esercito israeliano tramite il "Piano Dalet ", che fu adottato nel marzo 1948 dalla Haganah. I precetti del Piano Dalet, tuttavia, furono sanciti nelle versioni precedenti dello stesso piano e furono messi in pratica quattro mesi prima, a partire dal 30 novembre 1947, il giorno dopo che l'Onu ebbe votato per dividere la Palestina e quando iniziò l'espulsione dei palestinesi da parte della forza militare sionista.
Se la colonizzazione ebraica del paese fu inaugurata nel 1880 sfrattando i palestinesi dalla loro terra con mezzi legali e finanziari, il fallimento del sionismo nell’acquisire più terre dai palestinesi chiarì che solo un energico sgombero illegale avrebbe raggiunto questo obiettivo. In 65 anni di acquisti aggressivi e di acquisizioni legali e illegali di terra palestinese sotto la protezione dell'occupazione britannica, i sionisti erano riusciti ad acquisire meno del 7 per cento delle terre di Palestina e avevano potuto espellere solo decine di migliaia di contadini palestinesi che vivevano in quella porzione di terra. Se questa fosse stata la velocità con cui gli acquisti di terreni fosse continuata, la migliore delle ipotesi avrebbe fatto sì che i sionisti avessero bisogno di altri nove secoli per comprare il resto del paese e espellere il resto dei palestinesi. Il fatto che i palestinesi iniziarono una campagna nazionale di grande successo contro la vendita di terre ai sionisti rendeva anche questo scenario molto ottimista. Questa sicuramente non era una soluzione accettabile per i sionisti e per realizzare quello che avevano previsto e atteso era necessaria un’energica pulizia etnica come il modo più efficace per una colonizzazione che avesse successo.
L'espulsione fu la causa della guerra del 1948.
Dal 14 Maggio 1948 circa 400.000 palestinesi erano già stati rimossi dall’avanzata delle forze sioniste, che non avevano solo consolidato i confini delle colonie ebree che il Piano di Spartizione aveva concesso loro, ma erano già entrati nel territorio del progettato Stato palestinese. Questa espulsione e lo sconfinamento territoriale furono il casus belli per gli eserciti arabi vicini, deboli e mal equipaggiati, per intervenire per porre fine alle espulsioni e alla colonizzazione in corso. I punti deboli degli eserciti arabi erano ben noti agli americani e ai sionisti. La valutazione del Segretario di stato americano Gerorge Marshall fu la seguente:
La struttura dell’intero Governo [ del ] Iraq è messa in pericolo da disordini politici ed economici e il governo iracheno non può in questo momento permettersi di mandare più di [ della ] manciata di truppe che ha già spedito. L'Egitto ha sofferto recentemente a causa di scioperi e disordini. Il suo esercito dispone di attrezzature insufficienti a causa del suo rifiuto dell’aiuto britannico e quello che ha è necessario per il lavoro della polizia. La Siria non ha né soldati né esercito degni di questo nome e non è stata in grado di organizzarne uno da quando i francesi l’hanno lasciata tre anni fa. Il Libano non ha un vero esercito, mentre l'Arabia Saudita ha [ un ] piccolo esercito che è appena sufficiente per mantenere ordine fra le tribù. Le gelosie tra Arabia Saudita e Siria da una parte e i governi di Transgiordania e Iraq hashemita dall’altra, impediscono agli arabi di fare di meglio.
I funzionari americani avevano capito molto bene. Infatti, Robert McClintock, un membro della delegazione degli Stati Uniti alle Nazioni Unite il 4 maggio - 11 giorni prima che gli eserciti arabi intervenissero – osservò che il Consiglio di Sicurezza avrebbe presto dovuto affrontare la questione "se l’attacco armato ebraico contro le comunità arabe in la Palestina è legittimo o se esso costituisca una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale tale da richiedere misure coercitive da parte del Consiglio di Sicurezza". McClintock osservò inoltre che, se eserciti arabi fossero entrati in Palestina, questo avrebbe portato le forze ebraiche a rivendicare "che il loro stato è oggetto di aggressione armata e useranno ogni mezzo per oscurare il fatto che è stata propria la loro aggressione armata contro gli arabi in Palestina la causa del contro- attacco arabo”.
Prevenire il ritorno
Data la loro debolezza e la forza dell’esercito invasore sionista, gli eserciti arabi non riuscirono a fermare l'espulsione in corso dei palestinesi e l'espansione coloniale di Israele. Ben - Gurion non mentì quando descrisse la situazione sul terreno:
"Cerchiamo di non ignorare la verità tra di noi ... politicamente noi siamo gli aggressori e loro si difendono ... Il paese è loro, perché ci abitano, mentre noi vogliamo venire qui e sistemarci e, secondo loro, noi vogliamo farlo per togliere loro il paese."
Egli aggiunse che:
"Se fossi un leader arabo, naturalmente non vorrei mai fare i conti con Israele. . . Abbiamo preso il loro paese. Certo, Dio lo ha promesso a noi, ma a loro che importa? Il nostro Dio non è il loro. Veniamo da Israele, è vero, ma era duemila anni fa e che cosa significa per loro? Ci sono stato l'antisemitismo, i nazisti, Hitler, Auschwitz, ma è stata colpa loro? vedono solo una cosa: siamo venuti e abbiamo rubato il loro paese. Perché dovrebbero accettarlo?"
Comprendere la posizione palestinese, tuttavia, non impedì a Ben - Gurion di valutare il successo delle politiche sioniste, vale a dire che il successo della colonizzazione ebraica poteva essere raggiunto solo attraverso il successo dell'espulsione dei palestinesi. Una inversione dell’espulsione avrebbe annullato l'attacco e, anzi, avrebbe invertito la colonizzazione. Questo è il motivo per cui Ben- Gurion e tutti i successivi governi israeliani hanno categoricamente rifiutato di permettere ai rifugiati palestinesi di tornare a casa. Nel mese di luglio del 1948, mentre l'espulsione era in corso, Ben Gurion insistette che "dobbiamo fare di tutto per garantire che [i palestinesi] non facciano mai ritorno". In effetti, la leadership delle colonie ebraiche aveva sperato che i palestinesi non tornassero alle loro case - il vecchio sarebbe morto e il giovane avrebbe dimenticato.
Ma questo non sarebbe accaduto. I palestinesi non hanno dimenticato i loro diritti e non vi hanno rinunciato e quelli tra loro che rimangono sul terreno continuano ad essere saldi di fronte alle politiche coloniali di espulsione di Israele. Migliaia di palestinesi, contrariamente alle aspettative di Ben Gurion, hanno tentato di tornare tra il 1948 e il 1956, sotto la copertura delle tenebre, attraverso i confini coloniali improvvisati di Israele, ma le armi israeliane li attendevano. In questo periodo l'esercito israeliano uccise 5.000 di loro chiamandoli "infiltrati" stranieri.
Ritorno come decolonizzazione
Retoricamente, il sionismo ha capito il potere del diritto al ritorno, non solo nella sua dimensione giuridica ed etica, ma anche nella sua capacità di minare il significato che i sionisti hanno attribuito a quello stesso concetto. Dopo tutto, era il sionismo ad aver insistito sul fatto che i discendenti degli ebrei europei convertiti al giudaismo erano in realtà discendenti degli antichi ebrei che erano stati presumibilmente espulsi dalla Palestina antica e il cui "rimpatrio" e "ritorno" era un imperativo morale e politico, 2.000 anni dopo. Da notare che l'argomento del sionismo non è storico e non lo è la pretesa che i presunti esuli ebrei del primo secolo avrebbero dovuto avere il diritto di tornare in Palestina allora né tanto meno che i loro discendenti immaginari dovrebbero avere il diritto di farlo due millenni dopo. Queste premesse ideologiche avrebbero sancito la "Legge del Ritorno" di Israele approvata dalla Knesset nel luglio 1950. Eppure, sono gli stessi sionisti che insistono sul fatto che il ritorno dei profughi palestinesi subito dopo l'espulsione, nel 1949 o anni dopo è considerato impraticabile e impossibile. Oggi, essi esprimono stupore di fronte al fatto che i rifugiati dovrebbero avere il diritto di tornare in patria solo 65 anni dopo la loro espulsione, mentre insistono per il diritto degli ebrei di "tornare" dopo 2000 anni.
In un intervento a una conferenza sul diritto al ritorno tenutasi presso la Boston University lo scorso fine settimana, Richard Cravatts , un propagandista sionista di Boston, ha espresso il suo orrore sul Times di Israele. Facendo eco alle argomentazioni sioniste serie, ha affermato che "nessuna popolazione di rifugiati può mai presumere che il diritto al ritorno - se tale diritto esiste - debba valere non solo per i profughi originali, ma anche per tutti i loro discendenti". Cravatts, come molti sionisti che negano il diritto al ritorno dei palestinesi, sembra aver dimenticato che si parla degli ebrei europei come discendenti fittizi dei presunti rifugiati ebraici del primo secolo, che hanno "presunto" quel diritto in nome del quale hanno colonizzato e colonizzano la Palestina. Mentre per il sionismo ebraico il "ritorno" è la condizione stessa della colonizzazione, Israele capisce molto bene che il ritorno dei profughi palestinesi e dei loro discendenti attuali significa a dir poco la decolonizzazione e il disfacimento del progetto sionista. I leader di Israele sono ovviamente corretti nella loro valutazione.
Va notato qui che la comprensione del diritto internazionale dei diritti dei rifugiati include il diritto al ritorno dei loro discendenti. Oltre alla riaffermazione annuale delle Nazioni Unite del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, il diritto al ritorno è stato accolto in linea di principio e in pratica dopo la guerra in Bosnia. Oltre mezzo milione di rifugiati e sfollati sono tornati con l'assistenza internazionale, a seguito dell'accordo di Dayton del 1995, alle loro case in una Bosnia (un paese di tre milioni e mezzo di persone) dominata demograficamente e politicamente dai membri di un'altra comunità etnica. Come il caso bosniaco dimostra chiaramente, il diritto al ritorno dei profughi ha superato le politiche razziali separatiste delle autorità locali che cercavano di continuare a controllare la terra dei profughi allontanati e di popolarli demograficamente con il proprio gruppo etnico a spese del rifugiati. L’applicazione internazionale del diritto al ritorno dei rifugiati bosniaci era basata sul diritto al ritorno dei rifugiati consolidata nel diritto internazionale e nelle risoluzioni dell'ONU, mentre il separatismo demografico razziale non aveva legittimazione morale o legale nel negare i diritti al ritorno dei rifugiati.
Il problema per il sionismo e Israele non è il diritto al ritorno, che è centrale per la loro ideologia e il loro progetto di insediamento coloniale, ma piuttosto chi è un soggetto con diritto al ritorno. Come tutto il resto quando si parla di sionismo e Israele, la loro concezione dei diritti non è mai universale, ma sempre particolare, anzi sempre ebreo-specifica. Considerando che, per il sionismo, gli ebrei, per definizione, sono soggetti di diritto-al-ritorno il cui esercizio del diritto al ritorno si traduce immediatamente nella colonizzazione della Palestina, ai palestinesi non può essere consentito di diventare soggetti di diritto-al-ritorno perché il loro esercizio di tale diritto si traduce immediatamente nella decolonizzazione. È questo particolarismo che determina l'impegno israeliano nella colonizzazione ebraica, il separatismo razziale e la supremazia, che il presidente degli Stati Uniti Barack Obama sostiene in modo inequivocabile, che si trova sulla strada del diritto al ritorno palestinese.
Ma a differenza dei palestinesi che hanno il diritto di tornare alle loro case secondo il diritto internazionale e le risoluzioni delle Nazioni Unite che applicano i loro criteri universalmente, non essendo rifugiati dalla Palestina, agli ebrei non è concesso il diritto di "ritornare" in Palestina o Israele in nessuna convenzione internazionale o risoluzione delle Nazioni Unite. Infatti, è Israele che si è concesso tale diritto per proprio conto. Tutti i documenti internazionali fondamentali del sionismo insistono non solo sui diritti dei palestinesi e sui diritti degli ebrei della diaspora a rimanere al sicuro nella diaspora, ma ironicamente non concedono alcun diritto di "ritorno " per gli ebrei.
La Dichiarazione britannica di Balfour del novembre 1917 garantisce il sostegno britannico per la "costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico", ma lo fa a condizione "che nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina o i diritti e lo status politico goduti dagli ebrei in qualsiasi altro paese". Il Mandato della Società delle Nazioni per la Palestina ribadì lo stesso concetto menzionando solo i diritti dei non-ebrei. Il piano di spartizione delle Nazioni Unite si garantiva in termini espliciti contro ogni espulsione della popolazione ebraica o contro gli stati arabi che lo avessero proposto. Una volta che l'espulsione fu in corso, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite emise la risoluzione 194 del 11 dicembre 1948, la concessione ai profughi palestinesi del diritto al ritorno e alla compensazione per i beni persi o danneggiati. Non c'è una risoluzione ONU, non un documento giuridico internazionale che conceda agli ebrei il "diritto al ritorno" in Palestina o Israele.
Le concessioni di Arafat e Abu Mazen
Mentre i palestinesi sono considerati soggetti con diritto al ritorno in una legge internazionale universalista, gli ebrei hanno acquisito tale diritto solo grazie a una legge particolarista israeliana. Questa discrepanza è centrale per il rifiuto di Israele del diritto al ritorno dei palestinesi. Mentre il diritto al ritorno ebraico, concesso da Israele, garantisce la colonizzazione ebraica e la supremazia razziale e religiosa ebraica così l'espulsione dei palestinesi garantisce la supremazia demografica ebraica che il diritto al ritorno dei palestinesi, se esercitato, minerebbe. I leader israeliani sono chiari su questo e non usano mezzi termini quando si affronta questo problema. Binyamin Netanyahu è stato solo l'ultimo leader israeliano a ribadire che il ritorno dei palestinesi “spazzerà via il futuro di Israele come stato ebraico".
“Il paese è loro, perché essi ci abitano mentre noi vogliamo venire qui e sistemarci e secondo loro noi vogliamo mandarli via dal loro proprio paese.”
David Ben - Gurion
Per garantirsi di mantenere un ruolo nel processo di Oslo con i suoi partner americani e israeliani, Yasser Arafat cedette sul diritto al ritorno dei palestinesi in un editoriale del New York Times nel 2002. Arafat francamente espresse "comprensione" e "rispetto" per la necessità di Israele di mantenere la supremazia demografica ebraica. Egli affermò che:
"Comprendiamo le preoccupazioni demografiche di Israele e capiamo che il diritto al ritorno dei profughi palestinesi, un diritto garantito dal diritto internazionale e dalla Risoluzione 194 delle Nazioni Unite, deve essere attuato in un modo che tenga conto di tali preoccupazioni."
Arafat dichiarò che stava cercando di negoziare con Israele su "soluzioni creative per la difficile situazione dei rifugiati nel rispetto delle preoccupazioni demografiche di Israele", che è, "rispettare” le sue preoccupazioni sulla supremazia demografica di Israele. Tuttavia, ciò che rende non creativo il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi che Israele ha espulso e la cui terra ha rubato e ruba non è un esame "demografico" o geografico o un ostacolo ambientale o logistico; ciò che rende il loro ritorno non pragmatico è che essi non sono ebrei e quindi non soggetti del diritto al ritorno.
La posizione di Arafat è stata ribadita recentemente dal suo successore, scelto dagli americani, Mahmoud Abbas, che ha rinunciato al proprio diritto al ritorno alla città di Safad, oggi in Israele, da cui lui e la sua famiglia furono espulsi nel 1948. Dieci anni dopo la rinuncia di Arafat , Abu Mazen ha dichiarato alla televisione israeliana, nel novembre 2012:
"La Palestina adesso per me è quella dentro i confini del '67 con Gerusalemme Est come sua capitale. Questa è ora e per sempre ... Questa è la Palestina per me. Sono un rifugiato, ma vivo a Ramallah. Credo che la Cisgiordania e Gaza siano la Palestina e le altre parti Israele " .
La reazione dei rifugiati palestinesi in Cisgiordania, a Gaza, nella diaspora è stata rapida e la loro rabbia incontenibile. Le fotografie di Abbas sono state bruciate e lui è stato denunciato da tutto lo spettro politico palestinese. I palestinesi hanno capito che la sua rinuncia al diritto al ritorno è stato un avallo al colonialismo israeliano e una ratifica palestinese delle colonie ebraiche. Lo stesso hanno fatto i leader israeliani, il presidente israeliano Shimon Peres ha descritto le dichiarazione Abbas come una "dichiarazione pubblica coraggiosa e importante" e ha detto che Abu Mazen ha capito che "la soluzione del problema dei profughi palestinesi non può essere nel territorio di Israele e a scapito del carattere peculiare di Israele”. Considerando che la visione di Abbas del futuro della Palestina è condivisa dai leader ebrei israeliani e dalla maggior parte degli ebrei israeliani è chiaro che essa non è condivisa dalla maggior parte dei rifugiati palestinesi, come dimostra la reazione popolare ostile alle sue dichiarazioni. Quella di Abbas, tuttavia, non è l'unica visione per il futuro palestinese.
La visione palestinese del ritorno
Un'altra visione continua ad animare le speranze e le strategie palestinesi per un ripristino dei loro diritti e per il loro ritorno alle loro case. Il romanziere palestinese Ghassan Kanafani presentò questa visione più di quattro decenni fa. Nel suo importante romanzo del 1969 “Tornando a Haifa”, Kanafani descrisse il ritorno dei palestinesi espulsi alle loro case. Il romanzo di Kanafani raffigura una coppia palestinese, Said e Safiyya , profughi di Haifa, espulsi in Cisgiordania, che rientra a casa sua a Haifa, un ritorno reso possibile dall’invasione e dall'occupazione della Cisgiordania da parte di Israele nel giugno 1967.
Nella frenesia dell'espulsione del 1948, il figlio primogenito della coppia palestinese , Khaldoun , fu lasciato nella casa. Dopo aver sognato per 19 anni il ritorno alla loro casa di Haifa e il recupero del loro figlio perduto, i due palestinesi arrivano a casa loro, ora occupata da una famiglia ebraica europea e dal loro figlio palestinese, Khaldoun che, si è scoperto, era stato rapito e adottato, preso dal sionismo come la casa di famiglia, come l'intero paese. Ribattezzato Dov, il loro figlio svolge il servizio nell'esercito israeliano.
Il secondo figlio della coppia palestinese, Khalid, nato in Cisgiordania, ha deciso di unirsi ai guerriglieri palestinesi, ma i suoi genitori si sono opposti alla sua decisione prima di partire per Haifa. Eppure il loro ritorno nella patria ancora colonizzata li ha costretti a porsi una domanda: "Che cos'è una patria?" la risposta di Said a se stesso e alla moglie Safiyya mostra la loro nostalgia ex-reazionaria che ha cercato di tornare a quella Haifa che conoscevano e insiste non su un passato pre -coloniale, ma su un futuro decolonizzato:
"Sto cercando la vera Palestina, la Palestina, che è più di un ricordo ... più di un figlio ..., come per noi, io e te, [la Palestina] era qualcosa che abbiamo cercato sotto la polvere della memoria e guarda quello che abbiamo trovato sotto la polvere, ancora più polvere! abbiamo fatto un errore quando abbiamo pensato che la patria fosse solo il passato, per Khalid la patria è il futuro ... per questo Khalid vuole imbracciare le armi. Ce ne sono decine di migliaia come Khalid, che non sono fermati dalle lacrime che gli uomini piangono mentre guardano nella profondità del loro sconfitte, ai resti dei loro scudi e ai fiori appassiti, ma guardano al futuro e così facendo, correggono i nostri errori, anzi gli errori del mondo intero ... Dov è la nostra vergogna, ma Khalid è il nostro onore duraturo. Non ti ho detto fin dall'inizio che non avremmo dovuto tornare ... e che il nostro ritorno richiede che sia combattuta una guerra? Andiamo".
La guerra continua ad essere combattuta, ma non è una guerra di armi. Vi è una lotta giuridica e politica palestinese in corso che mira a realizzare un futuro decolonizzato per palestinesi ed ebrei. È la guerra del boicottaggio, o più precisamente la guerra di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS). Il BDS capisce bene che la colonizzazione e l'espulsione sono lo stesso processo e che l'inversione di uno è l'inversione dell'altro. La guerra nonviolenta lanciata dieci anni fa dal movimento palestinese BDS e dai suoi alleati internazionali richiede la fine della colonizzazione sionista e un suo rovesciamento attraverso lo smantellamento della struttura razziale coloniale che governa Israele e impedisce il ritorno dei profughi palestinesi, da qui l'insistenza da parte del movimento BDS sul fatto che ribaltare i privilegi legali razziali degli ebrei israeliani e trasformare palestinesi ed ebrei in cittadini uguali è l'unico programma per la decolonizzazione e l'unica condizione per il ritorno dei profughi palestinesi.
Joseph Massad insegna Politica araba moderna e Storia Intellettuale presso la Columbia University di New York. Egli è l'autore di The Persistence of the Palestinian Question pubblicato da Routledge .
(tradotto da Barbara Gagliardi
per conto dell’Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus)