Basel Natsheh: "Il libero mercato non ci garantirà la pace"

AIC – Alternative Information Center
17.11.2013

http://www.alternativenews.org/english/index.php/features/economy-of-the-occupation/7382-basel-natsheh-market-won-t-bring-peace

Basel Natsheh: “Il libero mercato non ci garantirà la pace”


Gli Accordi di Oslo avrebbero dovuto portare pace e una migliore situazione economica in Palestina. Invece, 20 anni dopo, l’impatto economico degli accordi sta peggiorando. L’economista Basel Natsheh dell’Università di Hebron definisce il Protocollo di Parigi “un vero disastro per l’economia palestinese”. Secondo Natsheh, la scelta neoliberale è la strada sbagliata verso la pace e la stabilità. 

di Carolin Smith

L’elenco delle limitazioni è lunga: impossibilità di accedere alle terre agricole a causa del muro di separazione, rigide condizioni per l’importazione e esportazione dei beni, totale controllo israeliano delle dogane e delle accise, mancanza di libertà di movimento e un utilizzo delle risorse naturali altamente regolamentato.

 

 

Uno studio del 2011 dell’organizzazione non governativa Applied Research Institute Jerusalem in collaborazione con il Ministro dell’Economia palestinese ha mostrato che, solo nel 2010, l’economia palestinese ha perso circa 6.9 miliardi di dollari, pari all’85% del PIL, come diretta conseguenza dell’occupazione. Secondo un report della Banca Mondiale pubblicato a ottobre, circa la metà di tale somma, 3.4 miliardi di dollari, rappresenta il costo annuale del controllo israeliano sull’area C. L’area C comprende il 61% del territorio cisgiordano e racchiude territori molto fertili. 

Dipendere dal mercato del lavoro israeliano

Prima dell’occupazione della Cisgiordania e di Gaza nel 1967, l’economia palestinese era prevalentemente agricola, come spiega il professore Basel Natsheh. Dopo la guerra del 1967 Israele aprì le porte del mercato del lavoro ai palestinesi, i quali, non rientrando sotto la giurisdizione del lavoro israeliana, rappresentavano una forza lavoro a basso prezzo. Da un lato questo sviluppo portò al più basso tasso di disoccupazione nella storia della Palestina, che si attestò al 3%; d’altro canto questi benefici ebbero un costo: i contadini palestinesi abbandonarono le loro terre e le loro attività agricole per impieghi come lavoratori non qualificati. “Con il tempo, siamo diventati sempre più dipendenti da Israele” conclude il professore Natsheh.

Israele trovandosi in una posizione di potere, può decidere chi lavorerà per le proprie imprese e chi no. Se è risaputo che una determinata persona è attiva politicamente, presenzia agli incontri del partito o è stata imprigionata non riceverà un permesso lavorativo per Israele. Questo è uno dei tanti metodi applicati da Israele per mantenere le persone in uno stato di passività. Solo nel 1987, con l’inizio della prima Intifada che una “nuova cultura patriottica” prese piede in Palestina; “a questo punto le persone divennero coscienti delle conseguenze dell’egemonia israeliana e iniziarono a boicottarla.” Natsheh sottolinea comunque come non voglia giudicare chi decide di lavorare per le compagnie o le colonie israeliane, in quanto consapevole che è la necessità a spingere le persone a tali decisioni poiché l’Autorità Palestinese non è semplicemente in grado di garantire lavoro a sufficienza. 

Il Protocollo di Parigi: unire indissolubilmente due economie

Gli accordi di Oslo furono firmati nel 1993 e rappresentarono “un momento cruciale per la vita dei palestinesi”, dice Natsheh. La coesione sociale raggiunta con la prima Intifada venne spazzata via dai trattati. Con la firma del Protocollo di Parigi nel 1994, l’Autorità Palestinese e Israele si accordarono a proposito dell’unione delle frontiere con l’obiettivo di migliorare le relazioni economiche. Da questo momento in poi, l’economia palestinese è divenuta completamente dipendente da Israele.

L’IVA palestinese è, per esempio, regolata in base ai valori dell’IVA israeliana con uno scarto ammesso del solo 2%. Se i prezzi aumentano in Israele, aumenteranno di conseguenza anche in Palestina. Inoltre sono ammesse le importazioni dai soli paesi che sono in buone relazioni con Israele, commerciare con la Siria, il Libano e l’Iran è pertanto proibito e tutti i beni che entrano o escono da Gaza sono altamente controllati. 

Il debito dello stato è aumentato drasticamente negli ultimi tre anni

“Non abbiamo un’economia indipendente nel vero senso del termine. Si tratta di una semi-economia palestinese”, afferma Basel Natsheh. Il professore ritiene che il Protocollo di Parigi fu un “vero disastro” per l’economia palestinese. Molte categorie sociali si sono impoverite, alcune non hanno nemmeno accesso all’acqua corrente e sono costrette a comprarla dalle colonie israeliane. Più dell’80% della frutta e verdura sul mercato palestinese proviene da Israele o dalle colonie. “Anche se lo volessimo, non potremmo boicottare i prodotti israeliani.”

La Palestina non dipende da Israele solo per quanto riguarda i beni importati in generale, ma anche per gli aiuti stranieri. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha recentemente avvertito che se la Cisgiordania e Gaza proseguiranno in questa direzione, c’è un elevato rischio che la situazione peggiori ulteriormente. Il debito nazionale è cresciuto drasticamente negli ultimi tre anni, dal 26% del PIL nel 2010 al 38% nel 2013.  Per questo motivo, il FMI prevede una grave crisi del debito nei prossimi anni. Oggigiorno circa un quarto della forza lavoro, il 24%, è disoccupata. Il FMI ha stimato che il PIL scenderà del 4.5% quest’anno, rispetto al 5.9% del 2012. 

Ristrutturare l’economia puntando sulla produzione locale

Venti anni dopo Oslo, Natsheh ritiene sia importante ristrutturare l’economia palestinese. Crede infatti che l’attuale approccio neo-liberale adottato dall’AP e dalle compagnie palestinesi non risolverà il problema. La creazione di aree di libero commercio non è una soluzione, “il modello capitalista del libero mercato non ci porterà automaticamente la pace, come molti pensano.”Natsheh preferisce piuttosto l’idea alla base dei kibbutz che un tempo seguivano un modello economico socialista.   

Secondo il professore, la Palestina dovrebbe dar vita a una “economia della resistenza”; “dovremmo smetterla di dipendere dalle importazioni e rafforzare la produzione locale e rivalorizzare le nostre competenze”. Non solo beni di primaria importanza come acqua e verdura vengono importati dall’esterno, anche la tradizionale Keffiyeh, un tempo uno dei simboli più potenti del nazionalismo e dell’identità palestinese, è prodotta oggi in una sola fabbrica in tutta la Cisgiordania, tutte le altre provengono dalla Cina. 

(tradotto da AIC Italia /Palestina Rossa)