Bloccati nella Zona A: come siamo stati ingannati affinché disconoscessimo i Palestinesi

Znet, 23.04.2015

http://zcomm.org/znet/article/stuck-in-area-a-how-we-were-duped-into-disowning-the-palestinians

traduzione: http://znetitaly.altervista.org/art/17345

Di Ramzy Baroud

Siete sorpresi che ci sia stata poca mobilitazione per aiutare Yarmouk, il campo profughi palestinese che si trova alla periferia di Damasco e che è  invaso  dai militanti e assediato dall’esercito siriano? I palestinesi – e i siriani – vengono uccisi in una miriade di modi, compresa l’inedia.

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Nella foto: murales sul muro tra Israele e Cisgiordania.

Io non sono sorpreso. Anche prima che i profughi palestinesi si trovassero coinvolti nel conflitto siriano, ho fatto appello a tute le parti coinvolte, comprese le dirigenze palestinesi (ahimè, ce ne sono varie) di risparmiare ai profughi il fardello della guerra e che i palestinesi mettessero da parte le loro differenze per evitare un replica del Libano, del Kuwait e dell’Iraq.

Non è successo nulla,  come se la storia recente non avesse nessun rilievo e non offrisse alcuna lezione. Hamas  era bloccata a Gaza, in senso reale e figurato – il suo tentativo di  politica   regionale è stato un fallimento – e sta  vacillando  sotto assedio, come 1,7milioni di profughi. Mahmoud Abbas, la sua Autorità Palestinese e qualunque ramo del suo partito Fatah, attualmente al comando,  è fermo nell’area A – una zona che si presume si governi da sola e che costituisce il 3% circa della Cisgiordania. Mentre l’esercito israeliano può ancora attaccare la zona A, formata  per lo più di città densamente popolate – arrestando i palestinesi – ad Abbas è affidata la gestione delle faccende palestinesi lì, cosa che avrebbe dovuto essere una responsabilità di Israele come Potenza Occupante, in base alle Convenzioni di Ginevra.

La zona B che è sotto il controllo di sicurezza congiunto di Israele e dell’Autorità Palestinese, ha consumato il 23-25 per cento della Cisgiordania – che comprende soprattutto  i quasi 400 villaggi palestinesi che sono praticamente sotto il controllo israeliano. Ma un enorme  72% della Cisgiordania è sotto il controllo israeliano, e lì  gli insediamenti sono per lo più situati, e lì gli israeliani governano con il pugno di ferro.

Mentre Israele considera tutta la Palestina nella sua totalità come suo dominio geografico, e l’intera regione del Medio Oriente come suo dominio politico e di sicurezza, Abbas è allegramente fisso nella zona A: il 3% della Cisgiordania e meno dell’1% della dimensione totale della Palestina storica. La zona A è  la sua fonte di sostentamento, la sua ragione di esistenza come ‘Presidente’ che governa su una popolazione intrappolata dai muri e dai posti di controllo  israeliani, dal coordinamento  di Israele e dell’Autorità Palestinese e dalla necessità umiliante di un    assegno alla fine di ogni mese.

Ma mentre molti di noi erano concentrati a screditare Oslo e la sua cultura rinunciataria, anche noi  siamo incollati  nella Zona A. Non possiamo liberarci  dall’idea di ridurre   la Palestina e il popolo palestinese e milioni di profughi palestinesi alla Zona A. Non l’abbiano fatto per   cattiveria  o perché non ci importa di Yarmouk in Siria, di Ein al-Hilewh in libano o di Baladiat in Iraq. Mentre  lavoravamo sodo  per  screditare Oslo, non avevamo una visione unificante al di fuori dei confini di Oslo, e così siamo stati intrappolati nel suo linguaggio di umiliazione    e nella sua geografia impossibile.

C’è troppa storia dietro tutto questo, e cercherò di risparmiarvi i dettagli. Ma un avvenimento che è accaduto oltre dieci anni fa, è rimasto profondamente impresso nella mia mente. Allora lavoravo a Londra  per una ONG che si occupava di diritti umani e un uomo con una voce   sconvolta   ha chiamato il nostro ufficio. “Aiutatemi, per   di Allah, per favore aiutatemi,” gridava in lacrime. Stava proprio piangendo. Il mio tentativo di confortarlo fallì. Mi chiamava usando un cellulare preso a prestito da un volontario  per i diritti umani in un campo profughi tra Iraq e Giordania. I suoi due fratelli  erano stati ammazzati  nel quartiere palestinese di Baghdad che si chiama Baladiat, uno dalle milizie sciite e uno dagli americani.

Quando però ha tentato di cercare rifugio in Giordania, i giordani gli hanno negato l’ingresso. I profughi palestinesi hanno uno status strano e prezioso, documenti di viaggio irrilevanti che rendono gli spostamenti estremamente difficili. I suoi documenti erano del tipo sbagliato. Era stato troppi mesi nel campo nel deserto. Ho tentato di fare qualcosa per lui, ma non ci sono riuscito.

Il suo problema, come quello dei rifugiati di Yarmouk, è che è finito nel dimenticatoio  della politica, della  geografia, di qualsiasi  diritto umano appropriato.  Come se fosse finito del tutto nel dimenticatoio della vita. L’unico documento rilevante era il Diritto di Ritorno per i profughi palestinesi inserito nella Risoluzione ONU 194. Quest’ultimo, tuttavia, è un documento citato generosamente da ricercatori e attivisti, ma che non ha un vero peso per i rifugiati di Baladiat – dato che centinaia di questi sono morti durante l’invasione americana – o per i 180.000 profughi che restano intrappolati a Damasco.

Tuttavia, il processo di frammentazione della Palestina è vecchio quanto il conflitto, ed è stato dettato in gran parte da Israele, dato che molti di noi, compresi i detrattori di Israele, hanno fatto lo stesso, ignari di contribuire proprio a quel processo che intendeva emarginare numerose comunità palestinesi.

Quando Israele ha occupato Gerusalemme Est, la Cisgiordania e Gaza, abbiamo parlato di “territori palestinesi”, non di Palestina. Progressivamente, i palestinesi che sono cittadini di Israele, sono stati eliminati dal discorso politico palestinese e arabo, come se avessero smesso di essere palestinesi

Quando sono stati firmati gli accordi di Oslo, abbiamo preso in prestito le loro terminologie deliberatamente disperate  e la  geografia confusa delle Zone A, B e C.

Spesso veniamo a sapere dell’esistenza di villaggi palestinesi che cui è capitato di essere situati  lungo il   Muro israeliano della Separazione (leggasi Apartheid) semplicemente perché erano situati sulla strada delle ruspe israeliane che  deturpano  la terra palestinese.

Parliamo di Gaza quando Israele la bombarda. Gaza è diventata fondamentale  per il discorso palestinese proprio dopo l’assedio di israeliano del 2007. Prima di questo era un’aggiunta nel linguaggio politico incentrato soprattutto sulla Cisgiordania soprattutto su Ramallah, la sede del trono della Zona A.

Siamo intrappolati nelle definizioni israeliane; quindi quando i palestinesi sono fatti morire di fame, vengono decapitati o ridotti in a pezzi facendoli saltare in aria a Yarmouk, rimaniamo perplessi. Offriamo solidarietà, lacrime e poca azione. Non riusciamo neanche ad articolare un discorso coerente, a parte tirare fuori la Risoluzione 194 da qualche archivio polveroso per parlare del Diritto di Ritorno, e di dire come la sofferenza di Yarmouk è fondamentalmente  responsabilità di Israele. Orgogliosi dei nostri sforzi, continuiamo con  la nostra vita come se avessimo salvato i profughi, improvvisamente,  con un solo collegamento a un sito dell’ONU.

Quando Israele ha intrapreso la sua guerra contro Gaza l’estate scorsa,  circa 150.000 persone hanno protestato  a Londra con un’altra massiccia dimostrazione  di  solidarietà,  replicata in molte città di tutto il mondo. Per Yarmouk, sono  arrivate circa  40 persone, uno sforzo ammirevole, ma che rivela il fatto che i profughi non esistono più al centro del discorso sulla Palestina.

Nel tentativo costante di rivelare le ingiustizie di Israele contro i palestinesi, la maggior parte di noi è stata ingannata ed ha tentato di ridurre la Palestina a un minuscolo margine dei suoi reali spazi fisici e politici che si estendono dalla Palestina – dalla totalità della Palestina – a tutto il Medio Oriente, volteggiando sopra Yarmouk, come è stato per molti anni, senza che nessuno di noi lo notasse.

Siamo intrappolati nella zona A, passando di tanto in tanto nelle Zone A e B, soltanto per tornare nella Zona A, dove è relativamente sicuro e facile comprendere e spiegare. Siamo bloccati dietro i muri e i posti di controllo  israeliani poiché  non riusciamo a vedere l’enorme spazio che è la Palestina, e i milioni di profughi che si tengono ancora stretti i documenti di proprietà  laceri  e le  chiavi arrugginite, dato che gli abbiamo promesso che il loro Diritto al Ritorno è importantissimo.

Abbiamo mentito? Ci sono state dette bugie? E’ più probabile che siamo stati ingannati  da una  pseudo-realtà, costruita molto abilmente da Israele e che troviamo ora estremamente difficile allontanarci dai suoi confini.

Ma se il nostro odio per l’occupazione israeliana e il nostro disgusto per le politiche di Israele sono più grandi del nostro affetto per i palestinesi, tutti loro, a cominciare dai profughi che muoiono ora a Yarmouk, allora, forse è tempo di riconsiderare la nostra comprensione e il rapporto con il conflitto nel suo insieme.

Ramzy Baroud  www.ramzybaroud.net è un opinionista che scrive sulla stampa internazionale, consulente nel campo dei mezzi di informazione, autore di diversi libri e fondatore del sito PalestineChronicle.com. Attualmente sta completando i suoi studi per il dottorato presso l’Università di Exeter. Il suo libro più recente è:  My Father Was a Freedom Fighter: Gaza’s Untold Story(Pluto Press, Londa). [Mio padre era un combattente per la libertà: la storia di Gaza non raccontata].

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

Traduzione di Maria Chiara Starace

Traduzione © 2015 ZNET Italy – Licenza Creative Commons  CC BY NC-SA 3.0