The One State Reality

(La realtà di uno Stato unico

Che cos'è Israele/Palestina?)

 

a cura di Michael Barnett, Nathan J. Brown, Marc Lynch e Shibley Telhami

Cornell University Press, 2023

The One State Reality sostiene che nei territori controllati dallo Stato di Israele predomina già la realtà di un unico Stato. I curatori dimostrano che partire dalla realtà di un solo Stato, piuttosto che sperare in una soluzione a due Stati, ridisegna il modo in cui consideriamo il conflitto, le soluzioni accettabili e inaccettabili e il modo in cui discutiamo le difficili questioni normative. La realtà di un solo Stato costringe a riconsiderare concetti fondamentali come Stato, sovranità e nazione; incoraggia letture diverse della storia; sposta la conversazione sulle soluzioni da due Stati ad alternative prese in prestito da altri contesti politici; e fornisce un contesto per affrontare domande scomode come se Israele/Palestina sia uno "Stato di apartheid".

Un sunto di questo importante lavoro, a cura di quattro influenti accademici americani, è stato pubblicato su "Foreign Affairs" ed è riportato sotto nella traduzione a cura di Assopace Palestina

 

La realtà dello Stato unico di Israele

È ora di rinunciare alla soluzione dei due Stati

di Michael Barnett, Nathan Brown, Marc Lynch e Shibley Telhami

Foreign Affairs, 14 aprile 2023. 

 

Il ritorno al potere del Primo Ministro Benjamin Netanyahu in Israele con una coalizione risicata e di estrema destra ha mandato in frantumi anche l’illusione di una soluzione a due Stati. I membri del suo nuovo governo non hanno esitato a dichiarare il loro punto di vista su ciò che Israele è e su ciò che dovrebbe essere in tutti i territori che controlla: un Grande Israele definito non solo come uno stato ebraico, ma come uno stato in cui la legge sancisce la supremazia ebraica su tutti i palestinesi che vi rimangono. Di conseguenza, non è più possibile evitare di confrontarsi con la realtà di uno Stato unico.

Il nuovo governo radicale di Israele non ha creato questa realtà, ma l’ha resa impossibile da negare. Lo status temporaneo di “occupazione” dei territori palestinesi è ora una condizione permanente in cui uno Stato governato da un gruppo di persone governa su un altro gruppo di persone. La promessa di una soluzione a due Stati aveva senso come futuro alternativo negli anni intorno agli accordi di Oslo del 1993, quando c’era un elettorato favorevole al compromesso sia da parte israeliana che palestinese e quando si facevano progressi tangibili, anche se effimeri, verso la costruzione delle istituzioni di un ipotetico Stato palestinese. Ma quel periodo è finito molto tempo fa. Oggi, non ha molto senso lasciare che visioni fantasiose del futuro offuschino l’ormai profondamente radicata situazione esistente.

È giunto il momento di confrontarsi con ciò che la realtà di uno Stato unico significa per l’azione, la politica e l’analisi. La Palestina non è uno Stato sul punto di nascere e Israele non è uno Stato democratico che occupa provvisoriamente il territorio palestinese. Tutto il territorio a ovest del fiume Giordano costituisce da tempo un unico Stato sotto il dominio israeliano, dove la terra e il popolo sono soggetti a regimi giuridici radicalmente diversi e i palestinesi sono trattati permanentemente come una casta inferiore. I politici e gli analisti che ignorano questa realtà di Stato unico saranno condannati al fallimento e all’irrilevanza, non facendo altro che fornire una cortina di fumo per il consolidamento dello status quo.

Alcune implicazioni di questa realtà di Stato unico sono chiare. Il mondo non smetterà di preoccuparsi dei diritti dei palestinesi, per quanto molti sostenitori di Israele (e alcuni governanti arabi) lo desiderino ardentemente. La violenza, l’espropriazione e le violazioni dei diritti umani si sono intensificate nell’ultimo anno e il rischio di scontri violenti su larga scala cresce ogni giorno, con i palestinesi bloccati in questo sistema di oppressione legalizzata e invasione israeliana in continua espansione. Ma molto meno chiaro è il modo in cui gli attori importanti si adegueranno –se si adegueranno– quando la realtà di un unico Stato passerà da segreto aperto a verità innegabile.

Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden sembra totalmente impegnato a mantenere lo status quo e non sembra che la sua amministrazione abbia riflettuto sulla questione o abbia fatto molto al di là della gestione della crisi e dell’espressione di qualche disappunto. Un forte senso di velleitarismo permea Washington, con molti funzionari statunitensi che cercano ancora di convincersi che esiste la possibilità di tornare a negoziare con due Stati dopo che l’aberrante governo Netanyahu avrà lasciato l’incarico. Ma ignorare la nuova realtà non sarà un’opzione possibile ancora per molto tempo. In Israele e in Palestina si sta addensando una tempesta che richiede una risposta urgente da parte del paese che più di tutti ha permesso la nascita di un unico stato che sostiene la supremazia ebraica. Se gli Stati Uniti vogliono evitare una profonda instabilità in Medio Oriente e una sfida alla loro più ampia agenda globale, devono smettere di esentare Israele dagli standard e dalle strutture dell’ordine internazionale liberale che Washington spera di guidare.

Dall’indicibile all’innegabile

Una soluzione a un solo Stato non è una possibilità futura: esiste già, a prescindere da ciò che si possa pensare. Tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano, uno stato controlla l’ingresso e l’uscita di persone e merci, supervisiona la sicurezza e ha la capacità di imporre le proprie decisioni, leggi e politiche a milioni di persone senza il loro consenso.

Una realtà a Stato unico potrebbe, in linea di principio, basarsi su un regime democratico e sulla parità di cittadinanza. Ma un tale accordo non è attualmente disponibile. Costretto a scegliere tra l’identità ebraica di Israele e la democrazia liberale, Israele ha scelto la prima. Si è chiuso in un sistema di supremazia ebraica, in cui i non ebrei sono strutturalmente discriminati o esclusi in uno schema a più livelli: alcuni non ebrei hanno la maggior parte, ma non tutti, i diritti che hanno gli ebrei, mentre la maggior parte dei non ebrei vive in condizioni di grave segregazione, separazione e dominazione.

Un processo di pace negli ultimi anni del ventesimo secolo aveva offerto l’allettante possibilità di qualcosa di diverso. Ma dal vertice di Camp David del 2000, dove i negoziati guidati dagli Stati Uniti non sono riusciti a raggiungere un accordo per la creazione di due Stati, l’espressione “processo di pace” è servita soprattutto a distrarre dalle realtà sul campo e a offrire una scusa per non riconoscerle. La seconda Intifada, scoppiata subito dopo la delusione di Camp David, e le successive intrusioni di Israele in Cisgiordania hanno trasformato l’Autorità Palestinese in poco più che un subappaltatore della sicurezza di Israele. Questi eventi hanno inoltre accelerato la deriva a destra della politica israeliana, gli spostamenti di popolazione causati dal trasferimento di cittadini israeliani in Cisgiordania e la frammentazione geografica della società palestinese. L’effetto cumulativo di questi cambiamenti è diventato evidente durante la crisi del 2021 per il sequestro di case palestinesi a Gerusalemme Est, che ha portato allo scontro non solo tra coloni israeliani e palestinesi, ma anche tra cittadini ebrei e palestinesi di Israele, in un conflitto che ha diviso intere città e quartieri.

Il nuovo governo di Netanyahu, che consiste in una coalizione di estremisti religiosi e nazionalisti di destra, incarna queste tendenze. I suoi membri si vantano della loro missione di creare un nuovo Israele a loro immagine e somiglianza: meno liberale, più religioso e più disposto alla discriminazione dei non ebrei. Netanyahu ha scritto che “Israele non è uno Stato di tutti i suoi cittadini”, ma piuttosto “del popolo ebraico – e solo di esso”. L’uomo che ha nominato ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha dichiarato che Gaza dovrebbe essere “nostra” e che “i palestinesi possono andare… in Arabia Saudita o in altri luoghi, come l’Iraq o l’Iran”. Questa visione estremista è da tempo condivisa da almeno una minoranza di israeliani ed è fortemente radicata nel pensiero e nella pratica sionista. Ha iniziato a raccogliere adesioni subito dopo l’occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele nella guerra del 1967. Sebbene non sia ancora una visione egemonica, può plausibilmente rivendicare una maggioranza nella società israeliana e non può più essere definita una posizione marginale.

La realtà di uno Stato unico è stata a lungo ovvia per coloro che vivono in Israele e nei territori da esso controllati e per chiunque abbia prestato attenzione agli inesorabili mutamenti sul terreno. Ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato. Fino a poco tempo fa, la realtà di uno Stato unico era raramente riconosciuta da attori importanti, e chi diceva la verità ad alta voce veniva ignorato o punito per averlo fatto. Con notevole rapidità, tuttavia, l’indicibile è diventato quasi una nozione convenzionale.

Democrazia per alcuni

Per vedere la realtà di un unico stato, molti osservatori dovranno indossare occhiali nuovi. Si tratta di persone abituate a vedere una distinzione tra i territori occupati e Israele vero e proprio – cioè lo Stato come esisteva prima del 1967, quando Israele catturò la Cisgiordania e Gaza – e che pensano che la sovranità di Israele sia limitata al territorio che controllava prima del 1967. Ma lo stato e la sovranità non sono la stessa cosa. Lo stato è definito da ciò che controlla, mentre la sovranità dipende dal riconoscimento da parte degli altri stati della legalità di tale controllo.

Questa nuova visione disaggrega i concetti di Stato, sovranità, nazione e cittadinanza, rendendo più facile vedere la realtà di uno Stato unico che si basa ineluttabilmente su relazioni di superiorità e inferiorità tra ebrei e non ebrei in tutti i territori sotto il controllo, differenziato ma incontrastato, di Israele. Consideriamo Israele attraverso la lente di uno stato unico. Ha il controllo su un territorio che si estende dal fiume al mare, ha quasi il monopolio dell’uso della forza e usa questo potere per sostenere un blocco draconiano a Gaza e controllare la Cisgiordania con un sistema di posti di blocco, di polizia e di insediamenti in continua espansione. Anche dopo il ritiro dell’esercito da Gaza nel 2005, il governo israeliano ha mantenuto il controllo sui punti di ingresso e di uscita del territorio. Come alcune parti della Cisgiordania, Gaza gode di un certo grado di autonomia e, dopo la breve guerra civile palestinese del 2007, il territorio è amministrato al suo interno dall’organizzazione islamista Hamas, che tollera poco il dissenso. Ma Hamas non controlla le coste, lo spazio aereo o i confini del territorio. In altre parole, secondo una definizione ragionevole, lo stato israeliano comprende tutte le terre dal confine con la Giordania al Mar Mediterraneo.

È stato possibile ignorare questa realtà perché Israele non ha avanzato rivendicazioni formali di sovranità su tutte queste aree. Ha annesso alcuni dei territori occupati, tra cui Gerusalemme Est e le alture del Golan. Ma non ha ancora dichiarato la sovranità sul resto della terra che controlla, e solo pochi stati potrebbero riconoscere tali rivendicazioni se Israele le facesse.

Controllare il territorio e consolidare il proprio dominio istituzionale senza formalizzare la sovranità consente a Israele di mantenere una realtà a uno stato nel modo più conveniente. Può negare la responsabilità (e i diritti) alla maggior parte dei palestinesi perché sono residenti nel suo territorio ma non cittadini dello stato, giustificando cinicamente questa discriminazione con il fatto che mantiene viva la possibilità di una soluzione a due stati. Non formalizzando la sovranità, Israele può essere democratico per i suoi cittadini ma non responsabile nei confronti di milioni di residenti. Questo accordo ha permesso a molti sostenitori di Israele all’estero di continuare a fingere che tutto questo sia temporaneo, che Israele rimanga una democrazia liberale e che, un giorno, i palestinesi eserciteranno il loro diritto all’autodeterminazione.

Ma anche all’interno dei confini precedenti al 1967, la democrazia israeliana ha dei limiti, che diventano evidenti quando si guarda alla cittadinanza. L’identità ebraica di Israele e la sua realtà di stato unico hanno prodotto una serie intricata di categorie giuridiche che distribuiscono diritti, responsabilità e protezioni differenziate. La legge sullo “Stato-nazione” del 2018 definisce Israele come “lo Stato-nazione del Popolo ebraico” e sostiene che “l’esercizio del diritto all’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è esclusivo del Popolo ebraico”; non fa alcun riferimento alla democrazia o all’uguaglianza per i cittadini non ebrei.

Secondo questa gerarchia di appartenenza, la classe di cittadinanza più completa è riservata agli ebrei israeliani (almeno a quelli il cui ebraismo soddisfa gli standard rabbinici); essi sono cittadini senza condizioni. I palestinesi che hanno la cittadinanza israeliana e risiedono nell’Israele pre-1967 hanno diritti politici e civili, ma devono affrontare altri limiti – sia legali che extragiuridici – ai loro diritti, alle loro responsabilità e alla loro protezione. I palestinesi residenti a Gerusalemme hanno teoricamente la possibilità di diventare cittadini israeliani, ma la maggior parte di essi la rifiuta perché sarebbe un atto di slealtà. I palestinesi che risiedono nei territori sono la classe più bassa di tutte. I loro diritti e le loro responsabilità dipendono dal luogo in cui vivono, con quelli di Gaza in fondo alla gerarchia, una posizione che è solo peggiorata da quando Hamas ha preso il controllo. Se si chiede a un palestinese di descrivere il suo status giuridico, la risposta può durare diversi minuti ed è ancora piena di ambiguità.

In cammino verso un posto di blocco israeliano nei Territori Palestinesi, giugno 2017. Mohamad Torokman / Reuters

Finché esisteva la speranza di una soluzione a due Stati che vedesse riconosciuti i diritti dei palestinesi, era possibile considerare la situazione all’interno dei confini israeliani del 1967 come una situazione di uguaglianza de jure combinata con una discriminazione de facto nei confronti di alcuni cittadini, una realtà sfortunata ma comune a gran parte del mondo. Ma quando si riconosce la realtà di uno Stato unico, si rivela qualcosa di più pernicioso. In quell’unico Stato, ci sono persone i cui movimenti, i viaggi, lo stato civile, le attività economiche, i diritti di proprietà e l’accesso ai servizi pubblici sono fortemente limitati. Una quota sostanziale di residenti di lunga data, con radici profonde e continue nel territorio di quello Stato è resa apolide. Tutte queste categorie e gradazioni di emarginazione sono applicate con misure legali, politiche e di sicurezza imposte da autorità statali che rispondono solo a una parte della popolazione.

Dare un nome a questa realtà è politicamente controverso, anche se si è formato un consenso sulle persistenti e gravi disuguaglianze che la definiscono. Una raffica di rapporti di organizzazioni non governative israeliane e internazionali che documentano queste disuguaglianze ha spinto il termine “apartheid” dai margini del dibattito israelo-palestinese al suo centro. L’apartheid si riferisce al sistema di segregazione razziale che il governo della minoranza bianca del Sudafrica ha utilizzato per sancire la supremazia bianca dal 1948 ai primi anni ’90. Da allora è stato definito dal diritto internazionale come “apartheid”. Da allora è stato identificato dal diritto internazionale e dalla Corte Penale Internazionale come un sistema legalizzato di segregazione e discriminazione razziale e considerato un crimine contro l’umanità. Le principali organizzazioni per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International, hanno applicato il termine a Israele. Lo stesso hanno fatto molti accademici; secondo un sondaggio condotto nel marzo 2022 tra gli studiosi che si occupano di Medio Oriente e che sono membri di tre grandi associazioni accademiche, il 60% degli intervistati ha descritto la situazione in Israele e nei Territori palestinesi come una “realtà a stato unico con disuguaglianze simili all’apartheid”.

Il termine potrebbe non essere perfetto. Il sistema di discriminazione strutturale di Israele è più severo di quello degli Stati più illiberali. Ma non è basato sulla razza, come era definito l’apartheid in Sudafrica e come è definito dal diritto internazionale, bensì sull’etnia, sulla nazionalità e sulla religione. Forse questa distinzione è importante per coloro che desiderano intraprendere azioni legali contro Israele. Tuttavia, è meno importante dal punto di vista politico ed è praticamente priva di significato quando si tratta di analizzare la situazione. Ciò che conta politicamente è che un termine un tempo tabù sia diventato sempre più un concetto generalmente accettato e di senso comune. Dal punto di vista analitico, ciò che conta è che l’etichetta apartheid descriva accuratamente i fatti sul campo e offra l’inizio di un progetto per cambiarli. Apartheid non è una parola magica che altera la realtà quando viene invocata. Ma il suo ingresso nella conversazione politica rivela un ampio riconoscimento del fatto che il governo israeliano è progettato per mantenere la supremazia ebraica in tutto il territorio controllato dallo stato. Il sistema israeliano non sarà tecnicamente un apartheid, ma è qualcosa di molto simile.

Brusco risveglio

Sono soprattutto gli israeliani e i palestinesi a doversi confrontare con la realtà di uno stato unico. Ma questa realtà complicherà anche le relazioni di Israele con il resto del mondo. Per mezzo secolo, il processo di pace ha permesso alle democrazie occidentali di trascurare l’occupazione israeliana a favore di un futuro ipotetico in cui l’occupazione sarebbe giunta a una soluzione reciprocamente negoziata. Anche la democrazia israeliana (per quanto imperfetta) e la distinzione nominale tra Israele e i territori palestinesi occupati hanno aiutato gli stranieri a distogliere lo sguardo. Tutti questi diversivi sono ormai finiti. La realtà di uno Stato unico è da tempo radicata nella legge, nella politica e nella società israeliana, anche se solo ora viene ampiamente riconosciuta. Non esistono alternative già pronte e sono passati decenni da quando c’è stato un significativo tentativo di crearne una ex novo.

Forse riconoscere questi fatti non cambierà molto. Molti problemi globali di lunga durata non vengono mai risolti. Viviamo in un mondo populista, dove la democrazia e i diritti umani sono minacciati. I leader israeliani fanno riferimento agli accordi di Abramo, che hanno stabilito relazioni di Israele con Bahrein, Marocco, Sudan ed Emirati Arabi Uniti (EAU), per dimostrare che la normalizzazione con gli stati arabi non ha mai richiesto la risoluzione della questione palestinese. Da parte loro, i leader occidentali potrebbero semplicemente continuare a fingere che Israele condivida i loro valori liberaldemocratici, mentre molti gruppi pro-Israele negli Stati Uniti raddoppiano il loro sostegno. Gli ebrei americani liberali possono lottare per difendere un Israele che ha molte caratteristiche di apartheid, ma le loro proteste avranno pochi effetti pratici.

Tuttavia, ci sono ragioni per credere che la transizione da un mondo ipotetico a due Stati a un mondo reale a uno Stato potrebbe essere difficile. L’accettazione dell’analogia con l’apartheid e l’ascesa del movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni –e l’intensa reazione contro entrambi– suggeriscono che il terreno politico si è spostato. Israele può godere di una maggiore sicurezza fisica e di un riconoscimento diplomatico regionale come mai prima d’ora, con pochi vincoli internazionali o locali sulle sue attività in Cisgiordania. Ma il controllo della situazione richiede più della sola forza bruta. Richiede anche una parvenza di legittimità, con lo status quo sostenuto dal fatto che viene dato per scontato, dall’essere diventato naturale nel senso comune e dall’impossibilità di immaginare una legittima resistenza. Israele ha ancora il potere materiale di vincere le battaglie che sceglie. Ma mentre queste battaglie si moltiplicano, ogni vittoria erode ulteriormente la posizione da cui combatte. Chi vuole difendere la realtà di uno Stato unico sta difendendo principi colonialisti in un mondo postcoloniale.

Manifestazioni contro Netanyahu, Tel Aviv, marzo 2023. Ilan Rosenberg / Reuters

La lotta per definire e modellare i termini di questa realtà di uno Stato unico può assumere nuove forme. In passato, le drammatiche guerre tra stati lasciavano aperture per i negoziati e per una diplomazia ad alto rischio. In futuro, però, i responsabili politici statunitensi non dovranno affrontare conflitti convenzionali come quelli scoppiati tra Israele e gli Stati Arabi nel 1967 e nel 1973. Si troveranno invece di fronte a qualcosa di più simile alla prima e alla seconda Intifada: improvvise esplosioni di violenza e contestazioni popolari di massa, come quelle avvenute nel maggio 2021. In quell’occasione, gli scontri a Gerusalemme hanno innescato una più ampia conflagrazione che ha coinvolto il lancio di razzi tra Israele e Hamas, manifestazioni e violenze in Cisgiordania e brutti incidenti in cui israeliani di origine ebraica e palestinese (e la polizia israeliana) si sono comportati come se l’etnia avesse la precedenza sulla cittadinanza. Atti di violenza quotidiani e sporadici episodi di rivolta popolare – forse anche una terza Intifada – sembrano inevitabili.

I responsabili politici negli Stati Uniti e altrove, che hanno a lungo parlato della necessità di preservare una soluzione a due Stati, sono sempre più costretti a reagire a crisi per le quali sono impreparati. I problemi generati dalla realtà di uno Stato unico hanno già scatenato nuovi movimenti di solidarietà, boicottaggi e conflitti sociali. Le ONG, i movimenti politici che sostengono varie cause israeliane e palestinesi e i gruppi transnazionali di difesa cercano di alterare le norme globali e di influenzare gli individui, le società e i governi con campagne mediatiche nuove e vecchie. Sempre più spesso, mirano a etichettare o boicottare i beni prodotti in luoghi controllati dal governo israeliano (o a mettere fuori legge tali boicottaggi) e a invocare le leggi sui diritti civili per mobilitare i loro sostenitori e trovare alternative ai deboli sforzi diplomatici dei leader governativi.

Ma tutti questi movimenti e campagne cercano di mobilitare circoli elettorali che sono profondamente divisi. I palestinesi sono divisi tra coloro che hanno la cittadinanza israeliana e coloro che hanno altre forme di residenza, così come tra coloro che vivono a Gerusalemme Est, in Cisgiordania e a Gaza. Sono divisi tra coloro che vivono nella realtà di uno Stato unico e coloro che vivono nella diaspora. Sono divisi tra la fazione politica di Fatah che detiene il potere in Cisgiordania e l’organizzazione di Hamas che controlla Gaza. Sono anche sempre più divisi lungo le linee generazionali. I palestinesi più giovani si sentono meno legati ai movimenti che hanno incanalato l’impegno politico e le energie dei loro genitori e nonni e sono più propensi a gravitare verso nuovi gruppi e ad adottare nuove tattiche di resistenza.

Un manifestante palestinese nella Striscia di Gaza, gennaio 2023. Mohammed Salem / Reuters

Gli ebrei israeliani sono altrettanto divisi sulla natura dello stato, sul ruolo della religione in politica e su una serie di altre questioni, tra cui i diritti di gay, lesbiche e altre minoranze sessuali. Gli ebrei israeliani liberali hanno organizzato proteste massicce contro l’assalto del governo Netanyahu alla democrazia e al sistema giudiziario, ma si sono mobilitati molto meno sulla questione palestinese, dimostrando come i disaccordi interni abbiano messo da parte le questioni relative a un processo di pace che non esiste più.

Il risultato è che i leader di entrambe le parti non guidano niente. Ci sono politici in tutti gli schieramenti che vogliono tenere sotto controllo il conflitto, generalmente non al servizio di una strategia di risoluzione, ma per un senso di inefficacia e inerzia. Altri politici vogliono l’opposto: scuotere le cose e muoversi in una direzione nettamente diversa, come ha fatto il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump con il suo “accordo del secolo”, promettendo la fine del conflitto in un modo che ha praticamente cancellato i diritti e le aspirazioni nazionali dei palestinesi. Anche gli ebrei che spingono per l’annessione formale dei territori occupati e i palestinesi che sostengono nuove modalità di resistenza al dominio israeliano sperano tutti di rovesciare lo status quo. Ma tutti questi sforzi si fondano su strutture di potere e di interesse saldamente consolidate.

In queste condizioni, qualsiasi diplomazia intrapresa in nome della risoluzione del conflitto in modo equo probabilmente fallirà perché interpreta male sia le possibili alternative all’attuale impasse sia la volontà di tutte le parti di raggiungerle. I politici che desiderano costruire scelte migliori dovranno prestare attenzione alle modalità di funzionamento e di evoluzione del sistema a uno Stato. Dovranno capire come i suoi diversi abitanti immaginano la loro patria, come i diritti vengono applicati o violati e come i dati demografici stiano lentamente ma minacciosamente cambiando.

Fantasmi della primavera araba

Il riconoscimento della realtà di uno Stato unico ha implicazioni importanti e contraddittorie per il mondo arabo. Il sostegno alla soluzione a due Stati ha sempre presupposto che la causa palestinese fosse di primaria importanza per le opinioni pubbliche arabe, se non per i loro governi. L’iniziativa di pace saudita del 2002, che offriva la normalizzazione delle relazioni tra Israele e tutti gli Stati Arabi in cambio del completo ritiro di Israele dai territori occupati, stabilì una linea di base: la pace con il mondo arabo avrebbe richiesto la risoluzione della questione palestinese.

Gli accordi di Abramo, mediati dall’amministrazione Trump e sostenuti con entusiasmo dall’amministrazione Biden, hanno preso esplicitamente di mira questo presupposto, accelerando la normalizzazione politica e la cooperazione in materia di sicurezza tra Israele e diversi Stati Arabi senza richiedere progressi sulla questione palestinese. Questo sganciamento della normalizzazione araba dalla questione palestinese ha contribuito a consolidare la realtà dello Stato unico.

Finora, gli accordi di Abramo si sono dimostrati duraturi, sopravvivendo alla formazione del governo di Netanyahu con i suoi ministri estremisti. La normalizzazione delle relazioni tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, almeno, probabilmente sopravvivrà al prossimo ciclo di violenze israelo-palestinesi e persino alle mosse esplicite di Israele verso l’annessione. Ma da quando sono stati firmati gli accordi, nessun altro Paese arabo ha cercato di normalizzare le relazioni con Israele e l’Arabia Saudita ha continuato a coprire le proprie intenzioni rinunciando comunque a stabilire legami formali con Israele.

È probabile che la normalizzazione araba rimanga indefinitamente legata alla questione palestinese al di fuori dei Paesi del Golfo. È fin troppo facile immaginare uno scenario in cui Israele si muova per confiscare altre proprietà a Gerusalemme, provocando diffuse proteste palestinesi, e poi risponda a questi disordini con una violenza ancora maggiore e un’espropriazione più rapida, innescando infine il crollo definitivo dell’Autorità Palestinese. Un’escalation del genere potrebbe facilmente scatenare proteste su larga scala in tutto il mondo arabo, dove le difficoltà economiche e la repressione politica da tempo inasprite hanno creato una polveriera. C’è anche la minaccia ancora più grave che Israele espella i palestinesi dalla Cisgiordania o addirittura da Gerusalemme – una possibilità, talvolta chiamata eufemisticamente “trasferimento”, che secondo i sondaggi sarebbe sostenuta da molti ebrei israeliani. Per non parlare di come Hamas o l’Iran potrebbero sfruttare tali condizioni.

Ai governanti arabi può non importare dei palestinesi, ma al loro popolo sì, e a quei governanti non interessa altro che mantenere i loro troni. Abbandonare completamente i palestinesi dopo più di mezzo secolo di sostegno almeno retorico sarebbe rischioso. I leader arabi non temono di perdere le elezioni, ma ricordano fin troppo bene le rivolte arabe del 2011 e si preoccupano di tutto ciò che invita a mobilitazioni popolari di massa che potrebbero rapidamente trasformarsi in proteste contro i loro regimi.

Uscita, protesta o fedeltà?

Riconoscere la realtà di uno Stato unico potrebbe anche polarizzare la conversazione americana su Israele e i palestinesi. Gli evangelici e molti altri esponenti della destra politica potrebbero vedere questa realtà come la realizzazione di quelle che considerano legittime aspirazioni israeliane. Molti americani di sinistra, invece, potrebbero finalmente riconoscere che Israele è uscito dai ranghi delle democrazie liberali e potrebbero abbandonare la fantasiosa promessa di due Stati per abbracciare l’obiettivo di un unico Stato che garantisca uguali diritti a tutti i suoi residenti.

Gli Stati Uniti hanno una notevole responsabilità nel rafforzare la realtà di uno Stato unico e continuano a svolgere un ruolo importante nell’inquadrare e plasmare la questione israelo-palestinese. La costruzione di insediamenti israeliani in Cisgiordania non sarebbe sopravvissuta e accelerata, e l’occupazione non sarebbe durata senza gli sforzi statunitensi per proteggere Israele dalle ripercussioni presso le Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali. Senza la tecnologia e le armi americane, Israele probabilmente non sarebbe stato in grado di sostenere il suo vantaggio militare nella regione e di consolidare la sua posizione nei territori occupati. Senza gli sforzi e le risorse diplomatiche statunitensi, Israele non avrebbe potuto concludere accordi di pace con gli Stati arabi, da Camp David agli Accordi di Abramo.

Tuttavia, la discussione americana su Israele e i palestinesi ha volutamente trascurato i modi in cui Washington ha favorito l’occupazione. Il sostegno degli Stati Uniti al processo di pace è stato formulato sia in termini di sicurezza di Israele sia basandosi sull’idea che solo una soluzione a due Stati potesse preservare Israele come stato ebreo e democratico. Questi due obiettivi sono sempre stati in tensione, ma la realtà di uno Stato unico li rende inconciliabili.

Sebbene la questione israelo-palestinese non sia mai stata in cima alla lista delle priorità dell’opinione pubblica americana, l’atteggiamento degli Stati Uniti si è notevolmente modificato: negli ultimi anni è diminuito il sostegno alla soluzione dei due Stati ed è aumentato il sostegno a un unico Stato che garantisca la parità di cittadinanza. I sondaggi mostrano che la maggior parte degli elettori americani, se costretti a scegliere, sosterrebbero un Israele democratico piuttosto che uno ebraico. Anche le opinioni su Israele sono diventate molto più di parte: i repubblicani, soprattutto gli evangelici, sono sempre più favorevoli alle politiche israeliane, mentre la stragrande maggioranza dei democratici preferisce una politica americana equilibrata. I giovani democratici ora esprimono più sostegno ai palestinesi che a Israele. Una delle ragioni di questo cambiamento, soprattutto tra i giovani democratici, è che la questione israelo-palestinese è sempre più vista come una questione di giustizia sociale piuttosto che di interesse strategico o di profezia biblica. Questo è stato particolarmente vero nell’era di Black Lives Matter.

La realtà dello Stato unico ha scosso in modo particolare la politica degli ebrei americani. Fin dai primi anni del sionismo, la maggior parte degli ebrei americani sostenitori di Israele ha ritenuto sacrosanta l’aspirazione di Israele a essere contemporaneamente ebreo e liberale. L’ultimo governo di Netanyahu potrebbe essere il punto di rottura per questo gruppo. È difficile conciliare l’impegno per il liberalismo con il sostegno a un unico Stato che offre i vantaggi della democrazia agli ebrei (e ora sembra calpestarne alcuni) ma li nega esplicitamente alla maggioranza dei suoi abitanti non ebrei.

La maggior parte degli ebrei americani considera i principi liberali di base, come la libertà di opinione e di espressione, lo Stato di diritto e la democrazia, non solo come valori ebraici, ma anche come baluardi contro la discriminazione antiebraica, baluardi che garantiscono la loro accettazione e persino la loro sopravvivenza negli Stati Uniti. Tuttavia, l’impegno di Israele nei confronti del liberalismo è sempre stato incerto. In quanto Stato ebraico, promuove una forma di nazionalismo etnico piuttosto che civico, e i suoi cittadini ebrei ortodossi giocano un ruolo sproporzionato nel determinare il modo in cui l’ebraismo modella la vita israeliana.

Nel 1970, l’economista politico Albert Hirschman scrisse che i membri di organizzazioni in crisi o in declino hanno tre opzioni: “uscita, protesta o fedeltà“. Oggi gli ebrei americani hanno le stesse opzioni. Una parte di loro, che probabilmente domina le principali istituzioni ebraiche negli Stati Uniti, esibisce una fedeltà che è più facile se si nega la realtà esistente di uno Stato. La protesta è la scelta sempre più dominante degli ebrei americani che prima erano nel campo della pace. Un tempo concentrati sul raggiungimento di una soluzione a due Stati, questi americani ora dirigono il loro attivismo verso la difesa dei diritti dei palestinesi, la salvaguardia dello spazio sempre più ridotto della società civile israeliana e la resistenza ai pericoli posti dal governo di destra di Netanyahu. Infine, ci sono gli ebrei americani che hanno scelto l’uscita, o l’indifferenza. Semplicemente non pensano molto a Israele. Forse perché non hanno una forte identità ebraica o perché vedono Israele non allineato o addirittura contrario ai loro valori. È dimostrato che più Israele si sposta a destra, più questo gruppo diventa numeroso, soprattutto tra i giovani ebrei americani.

Controllo della realtà

Finora, l’amministrazione Biden ha cercato di sostenere lo status quo, esortando Israele a evitare grandi provocazioni. In risposta alla continua costruzione di insediamenti in Cisgiordania e ad altre violazioni israeliane del diritto internazionale, gli Stati Uniti hanno rilasciato dichiarazioni inconcludenti, invitando Israele a evitare azioni che minano la soluzione a due Stati. Ma questo approccio sbaglia la diagnosi del problema e non fa che peggiorarlo: il governo di estrema destra di Netanyahu è un sintomo, non una causa, della realtà di uno Stato unico, e coccolarlo nel tentativo di indurlo alla moderazione non farà altro che rafforzare i suoi leader estremisti, dimostrando che non devono pagare alcun prezzo per le loro azioni.

Gli Stati Uniti potrebbero invece rispondere a una realtà radicalizzata con una risposta radicale. Per cominciare, Washington dovrebbe bandire dal suo vocabolario i termini “soluzione a due Stati” e “processo di pace”. Gli appelli statunitensi affinché israeliani e palestinesi tornino al tavolo dei negoziati si basano su un pensiero magico. Cambiare il modo in cui gli Stati Uniti parlano della questione israelo-palestinese non cambierà nulla sul campo, ma eliminerà una facciata che ha permesso ai politici statunitensi di evitare il confronto con la realtà. Washington deve guardare a Israele per quello che è e non per quello che si è pensato che fosse, e agire di conseguenza. Israele non finge più di avere aspirazioni liberali. Gli Stati Uniti non hanno “valori condivisi” e non dovrebbero avere “legami indissolubili” con uno Stato che discrimina o abusa di milioni di suoi residenti in base alla loro etnia e religione.

Una politica statunitense migliore dovrebbe sostenere l’uguaglianza, la cittadinanza e i diritti umani per tutti gli ebrei e i palestinesi che vivono all’interno dello Stato unico dominato da Israele. Teoricamente, una politica di questo tipo non impedirebbe la resurrezione di una soluzione a due Stati nell’improbabile caso in cui le parti si muovessero in quella direzione in un futuro lontano. Ma partire da una realtà a uno Stato, moralmente riprovevole e strategicamente costosa, richiede un’attenzione immediata alla parità dei diritti umani e civili. Un serio rifiuto della realtà ingiusta di oggi da parte degli Stati Uniti e del resto della comunità internazionale potrebbe anche spingere le parti stesse a considerare seriamente futuri alternativi. Gli Stati Uniti dovrebbero esigere l’uguaglianza ora, anche se l’accordo politico finale spetterà ai palestinesi e agli israeliani.

A tal fine, Washington dovrebbe iniziare a condizionare gli aiuti militari ed economici a Israele a misure chiare e specifiche per porre fine al dominio militare di Israele sui palestinesi. Evitare tale condizionalità ha reso Washington profondamente complice della realtà di uno Stato unico. Se Israele dovesse persistere sulla strada attuale, gli Stati Uniti dovrebbero prendere in considerazione la possibilità di ridurre drasticamente gli aiuti e altri privilegi, forse anche di imporre sanzioni intelligenti e mirate a Israele e ai leader israeliani in risposta ad azioni chiaramente trasgressive. Israele può decidere da solo cosa vuole fare, ma gli Stati Uniti e le altre democrazie possono assicurarsi che conosca i costi del mantenimento e persino dell’intensificazione di un ordine profondamente illiberale e discriminatorio.

La visione globale più chiaramente articolata dall’amministrazione Biden è stata la difesa a tutto campo delle leggi e delle norme internazionali in risposta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Anche se si ignora la realtà di uno Stato unico, le stesse norme e gli stessi valori sarebbero sicuramente in gioco in Israele e in Palestina, come si pensa nella maggior parte del Sud globale. Quando Israele viola le leggi internazionali e le norme liberali, gli Stati Uniti dovrebbero denunciarlo come farebbero con qualsiasi altro Stato. Washington deve smettere di fare da scudo a Israele nelle organizzazioni internazionali quando si trova di fronte a valide accuse di trasgressioni al diritto internazionale. Deve inoltre astenersi dal porre il veto alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che mirano a ritenere Israele responsabile, smettere di opporsi agli sforzi palestinesi per ottenere un risarcimento nei tribunali internazionali, e mobilitare altri Paesi per chiedere la fine dell’assedio di Gaza, un’altra misura che doveva essere temporanea e che è diventata una realtà crudele e istituzionalizzata.

Ma la realtà dell’esistenza di uno Stato unico richiede qualcosa in più. Guardato attraverso questo prisma, Israele assomiglia a uno Stato di apartheid. Invece di esentare Israele dalla severa legge contro l’apartheid, sancita dal diritto internazionale, Washington deve fare i conti con la realtà che ha contribuito a creare e deve iniziare a considerarla, a parlarne e a interagire con essa in modo onesto. Gli Stati Uniti devono sostenere le organizzazioni non governative internazionali, israeliane e palestinesi, le organizzazioni per i diritti umani e i singoli attivisti che sono stati demonizzati per aver coraggiosamente denunciato l’ingiustizia strutturale. Washington deve proteggere le organizzazioni della società civile israeliana che sono l’ultimo rifugio dei valori liberali del Paese e quelle palestinesi i cui sforzi saranno fondamentali per evitare un conflitto sanguinoso nei mesi a venire. Gli Stati Uniti devono anche opporsi agli arresti israeliani dei leader palestinesi che offrono una visione non violenta della resistenza popolare. E non dovrebbero cercare di fermare o punire coloro che scelgono di boicottare pacificamente Israele a causa delle sue politiche abusive.

Sebbene Washington non possa impedire la normalizzazione delle relazioni tra Israele e i suoi vicini arabi, gli Stati Uniti non dovrebbero guidare tali sforzi. Nessuno dovrebbe lasciarsi ingannare dal miraggio che gli accordi di Abramo progrediscano mentre la questione palestinese si aggrava. Scindere tali accordi di normalizzazione dal trattamento riservato da Israele ai palestinesi ha solo rafforzato l’estrema destra israeliana e cementato la supremazia ebraica all’interno dello Stato.

Questi cambiamenti nella politica statunitense non darebbero immediatamente i loro frutti. Il contraccolpo politico sarebbe forte, anche se gli americani – soprattutto i democratici – sono diventati molto più critici nei confronti di Israele di quanto non lo siano i politici che hanno eletto. Tuttavia, nel lungo periodo, questi cambiamenti offrono la migliore speranza di arrivare a un risultato più pacifico e giusto in Israele e Palestina. Affrontando finalmente la realtà dello Stato unico e prendendo una posizione di principio, gli Stati Uniti smetterebbero di essere parte del problema e inizierebbero a far parte della soluzione.

 

Michael Barnett è professore universitario di Affari internazionali e Scienze politiche presso la Elliott School of International Affairs della George Washington University.

Nathan J. Brown è professore di Scienze politiche e Affari internazionali alla George Washington University e Senior Fellow non residente presso il Carnegie Endowment for International Peace.

Marc Lynch è professore di Scienze politiche e Affari internazionali alla George Washington University.

Shibley Telhami è Anwar Sadat Professor for Peace and Development presso l’Università del Maryland e Nonresident Senior Fellow presso la Brookings Institution.

 

Traduzione a cura di AssoPacePalestina