Una rivelazione scioccante sugli attentati di Baghdad del 1950 e del 1951

Avi Shlaim afferma di aver scoperto prove inconfutabili che agenti sionisti furono responsabili di attacchi contro la comunità ebraica irachena per costringerla a fuggire dall'Iraq e stabilirsi in Israele

di Justin Marozzi

The Spectator, 17 giugno 2023

La famiglia di Avi Shlaim faceva la bella vita a Baghdad. Erano membri illustri e benestanti della minoranza ebraica irachena, una comunità che può far risalire la sua presenza nelle terre babilonesi a oltre 2.500 anni fa. Avevano una grande casa con servitori e bambinaie, frequentavano le migliori scuole, si intrattenevano con i  personaggi alla moda  e passavano con eleganza da una festa scintillante all'altra. Il padre di Shlaim era un uomo d'affari di successo che annoverava alcuni ministri fra i suoi amici. Sua madre, molto più giovane, era molto bella e socialmente ambiziosa. Attirava ammiratori che andavano dal re egiziano Farouk a un reclutatore del Mossad. Questa parte privilegiata della società irachena viveva in un ambiente ricco, cosmopolita e generalmente armonioso. E per il giovane Shlaim, nato a Baghdad nel 1945, erano giorni felici.

Avi Schlaim

Ma non sarebbero durati. Nel 1950, durante una serie di attentati che colpirono la popolazione ebraica della capitale irachena, lui e la sua famiglia fuggirono dalla loro antica patria per iniziare una nuova vita nel nascente Stato di Israele. Suo padre, ormai cinquantenne, non sapeva parlare l'ebraico ed era completamente affranto. Dopo un paio di tentativi falliti di avviare un'attività commerciale, non lavorò mai più. La vivace madre di Shlaim fu costretta a farsi carico della situazione, scambiando la vita dorata di regina dei salotti di Baghdad con un banale lavoro di telefonista a Ramat Gan, a est di Tel Aviv, dove vivevano in condizioni molto più modeste. La coppia si allontanò e divorziò, e il padre di Shlaim morì nel 1970.

Ripercorrendo la sua infanzia turbolenta oltre 70 anni dopo, Shlaim, professore di Oxford in pensione e illustre storico del conflitto arabo-israeliano, arriva a capire che il suo primo rapporto con Israele fu definito da un complesso di inferiorità. I sefardim, gli ebrei provenienti dalle terre arabe, erano guardati dall'alto in basso dagli ashkenazim, le loro controparti europee. A scuola era taciturno e impacciato e ha riacquistato fiducia in se stesso, dopo un periodo infelice in Israele, solo quando si è reinsediato da adolescente in Gran Bretagna.

 

Al centro di questo libro avvincente e profondamente controverso c'è l'indagine di Shlaim sugli attentati di Baghdad contro obiettivi ebraici nel 1950 e 1951. In quegli anni circa 110.000 ebrei, da una popolazione di circa 135.000, emigrarono dall'Iraq in Israele. Sebbene Israele abbia sempre negato qualsiasi coinvolgimento in questi attentati, c'erano molti sospetti riguardo le attività clandestine degli agenti sionisti incaricati di convincere la comunità ebraica a fuggire dall'Iraq e a stabilirsi in Israele. La bomba di Shlaim consiste nello scoprire quelle che definisce "prove innegabili del coinvolgimento di sionisti negli attacchi terroristici", che hanno contribuito a porre fine alla presenza millenaria degli ebrei a Babilonia. Si tratta di un'accusa non da poco, che sarà sempre molto contestata.

Questo libro è scritto in modo eccellente e mescola ad arte il personale con il politico. I ricordi della vita familiare, sia nella sua gloria che nelle sue angosciose tribolazioni, sono vividamente ricreati. Quella di Shlaim è una voce potente e umana che ci ricorda che i palestinesi non sono stati le uniche vittime della creazione di Israele nel 1948. Egli sostiene che il progetto sionista ha inferto un colpo mortale alla posizione degli ebrei nelle terre arabe, trasformandoli da compatrioti accettati in una sospetta quinta colonna alleata del nuovo Stato ebraico. Si aggrappa risolutamente alla sua identità di arabo ed ebreo, da cui il titolo di questo libro di memorie.

Dopo il servizio militare e l'arrivo come studente a Cambridge nel 1966, Shlaim ci conduce nella  sua storia terminando con uno straordinario epilogo in cui si lancia in un attacco frontale al sionismo e al moderno Stato di Israele. Anche dopo aver letto tutta la storia, la sua pura e semplice ferocia è stordente.

È un J'Accuse lacerante che lascerà alcuni lettori sbigottiti. Sostiene che il movimento sionista eurocentrico e Israele hanno lavorato insieme per intensificare le divisioni tra  israeliani e palestinesi, ebrei e arabi, ebraismo e islam. Hanno lavorato attivamente per cancellare un antico patrimonio di "pluralismo, tolleranza religiosa, cosmopolitismo e coesistenza. Soprattutto, il sionismo ci ha scoraggiato dal vedere gli altri come esseri umani simili". Israele, originariamente creato da un "movimento coloniale" che ha perpetrato la "pulizia etnica della Palestina", è diventato "uno Stato-fortezza con una mentalità da assedio che ha attribuito intenzioni genocide ai suoi vicini". Questo è un territorio aspramente contestato. Shlaim confessa che la maggior parte degli israeliani, compresa la sua famiglia, è indignata dalla definizione di Israele come "Stato dell'apartheid", eppure è proprio così che lui lo considera.

 

Per quanto riguarda il modo più efficace di guardare al futuro, sarebbe difficile trovare un'argomentazione credibile contro la sua conclusione che la cosiddetta soluzione dei "due Stati" al conflitto israelo-palestinese è un buco nell'acqua. Dopo anni di espansione incessante e illegale degli insediamenti israeliani, il modo più chiaro per dimostrare questa affermazione è porre una semplice domanda: dove sarebbe esattamente lo Stato palestinese?

La soluzione preferita da Shlaim per il conflitto, un tempo liquidata come estremista ma ora considerata con sempre maggiore serietà, anche dai palestinesi ma da pochissimi israeliani, è la soluzione di uno Stato unico, con "uguali diritti per tutti i suoi cittadini, indipendentemente dall'etnia o dalla religione". Ciò equivarrebbe alla fine dello Stato ebraico di Israele. Perché mai dovrebbe essere contemplata? Shlaim risponde con un'ultima rasoiata: "L'apartheid nel XXI secolo non è semplicemente sostenibile".

 

Traduzione a cura dell'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze