Per salvare Israele, farla finita col sionismo

Emily Tamkin, 26 dicembre 2023  https://forward.com/opinion/574657/shaul-magid-counter-sionist-israel/?utm_source=The+Forward+Association&utm_campaign=65445c6b7a-AfternoonEditionNL_%2A%7CDATE%3AYmd%7C%2A_COPY_01&utm_medium=email&utm_term=0_-878b15fee9 -%5BLIST_EMAIL_ID%5D

È un po' strano che il mio libro venga pubblicato proprio adesso, ammette Shaul Magid, professore di studi ebraici al Dartmouth College(Boston). Magid è l'autore di una nuova stimolante  raccolta di saggi, La Necessità dell’Esilio.  Il lavoro, che lui descrive come contro-sionista, afferma che gli ebrei dovrebbero considerare nuovamente i vantaggi di vivere in esilio, anche all’interno dello stesso Stato di Israele, e di lasciar perdere sia la soluzione dei due Stati che l’idea del sionismo.

In tutta onestà, Magid ha espresso per anni scetticismo sulla possibilità dei due stati, e la sua argomentazione a favore di uno stato non è sorprendente. Ciò che è nuovo, tuttavia, è la sua articolazione su come si può essere a favore di Israele pur essendo contro il sionismo.  Se i sionisti liberali sono ora costretti a sostenere uno stato illiberale, scrive in uno dei primi capitoli, perché non costruire un nuovo modo per affermare l’autodeterminazione ebraica, un percorso per sostenere il liberalismo piuttosto che essere costretti a sostenere un’ideologia che va contro i nostri valori fondamentali?

Magid considera ancora positivamente l’idea del sionismo come stato ebraico per gli ebrei, ma aggiunge che non dovrebbe essere solo per gli ebrei, e che la terra non deve in primo luogo essere considerata esclusivamente nostra da rivendicare o da gestire. Alcuni lo chiamerebbero antisionismo; Magid non lo fa, poiché ritiene che ciò implichi un'opposizione all'esistenza di uno Stato di Israele, e il suo punto è che non è contrario allo Stato in sé.

Ma questa realtà, ammette, richiederebbe un modo completamente nuovo di pensare all’autodeterminazione, alle rivendicazioni storiche e teologiche di una proprietà ebraica delle terre che comportino una sovranità esclusiva. Ma qual è la natura, o addirittura l’ossessione, di questo attaccamento ostinato al sionismo? Spesso le ideologie soccombono all’obsolescenza, anche se ciò che producono rimane.

Magid ha terminato il suo  libro molto prima del 7 ottobre e della guerra che ne seguì. Ma le domande che solleva su quale dovrebbe essere il futuro di Israele, se il sionismo liberale sia sostenibile e come gli ebrei di tutto il mondo dovrebbero relazionarsi con Israele e con l’antisemitismo hanno assunto una nuova urgenza.

Contro-sionismo,per Israele?   Magid conta che il suo libro non venga liquidato come anti-israeliano. Lui è un cittadino dello Stato (anche se molto ambivalente, scrive). E se il pubblico venisse a considerare il contro-sionismo come opposizione allo stesso Stato di Israele, allora il libro sarebbe stato una perdita di tempo, mi dice.  Ci saranno alcuni che non riusciranno a vedere le cose dal suo punto di vista. Dopotutto, Magid sta proponendo una visione di uno stato binazionale, qualcosa che non garantisce affatto che gli ebrei costituiscano la maggioranza in Israele. Ma la sua tesi è che, sebbene tale visione non sia sionista, non è nemmeno anti-israeliana; l’ideologia dei fondatori e lo Stato così come esiste oggi sono due cose diverse.

Ho chiesto cosa pensasse dell’idea che il 7 ottobre dimostri che la soluzione di uno stato singolo sia diventata ora totalmente insostenibile. Ma Magid rifiuta questa affermazione e crede che dopo la guerra ci sarà la stessa volontà politica per la soluzione dei due Stati che c’era prima (vale a dire, molto poca).  Un tempo si considerava che la soluzione dei due Stati fosse praticabile e quella di uno Stato unico fosse un’utopia, mi ha detto. Sto dicendo che forse siamo arrivati ​​al punto in cui è vero il contrario, dice Magid, che crede che il paese sia già in una realtà con un unico stato e che non ci sia un reale desiderio per due stati. La soluzione di uno Stato unico non è che sia un granchè, ma è più o meno ciò che esiste.

In altre parole, mentre alcuni pensano che il 7 ottobre abbia dimostrato che Due Stati siano l’unica risposta possibile, Magid ritiene che lo Stato che esiste adesso è lo stato che ci sarà quando la guerra finirà, e che è uno stato in cui non c’è nessuna reale volontà politica di dare qualcosa ai palestinesi. (Si potrebbe sostenere che la parità di diritti all’interno di una soluzione Stato Unico è più utopica che non in quella di Due Stati, ma Magid è di parere opposto.)

Io propongo il contro-sionismo come un modo per pensare diversamente al complesso intreccio di storia, identità e politica ebraica, non per prendere le distanze da Israele, ma piuttosto per continuare a credervi, scrive.  Non so se la visione che propongo del contro-sionismo abbia maggiori probabilità di realizzarsi rispetto a quella del sionismo liberale. Ma l’idea di un paese che si evolve oltre la sua ideologia fondatrice ha un senso intrinseco: Magid lo paragona agli Stati Uniti che hanno avuto bisogno di abbandonare certe impostazioni iniziali. Ma soprattutto, ciò che ho trovato convincente è che Magid ci incoraggia a pensare a Israele non come un’idea, o una proiezione del senso di sé degli ebrei americani, ma come un paese.

In Israele, ma in esilio   Molti sionisti, soprattutto quelli laici, vedono la creazione dello Stato di Israele come il successo finale dell’ebraismo e la fine trionfante dell’esilio ebraico. A loro Magid dice: OK. Questo è quello che è successo. Ecco dove siamo. Ma non penso che debba fermarsi qui.

Negli anni '40, scrive Magid, i sionisti americani si preoccupavano di essere considerati come  diaspora, non come esiliati, poiché non volevano essere visti come estranei in uno stato. Ma Magid ritorna nella storia, rivendica l'esilio, lo ripropone al presente. Questa, per me, è stata una delle parti più avvincenti del libro: l’argomentazione secondo cui gli ebrei di tutto il mondo, inclusi ma non limitati agli Stati Uniti, possono ricordare che essere in esilio non è da meno, e soprattutto non vuol dire  essre meno ebrei.

Considerare noi stessi come viventi in esilio è essenziale, dice, o almeno può essere vantaggioso per gli ebrei e l’ebraismo, e non dovremmo essere così frettolosi nel scrollarci di dosso questa cosa. L’esilio, ha detto, crea un senso di umiltà,  un senso di non completamento.

Per la nostra tendenza a fuggire dall’idea dell’esilio, incolpa l’Olocausto. Il rifiuto dell’esilio come risposta al crollo dell’ebraismo europeo e al successivo assassinio di 6 milioni di ebrei era certamente comprensibile e contribuì ad accelerare la fondazione dello Stato di Israele, scrive. E si può capire perché, con questo riferimento, l’esilio sarebbe visto come un male e qualcosa da evitare.

Io ho evidenziato che sono molti a dire che Israele è il progetto politico più importante del popolo ebraico. Lui risponde che ciò che l’esilio ha prodotto, in realtà è stato proprio l’ebraismo. La religione stessa è stata forgiata al di fuori di un luogo fisico, dall’essere o meno uno stato, è stata forgiata dall’impegno.

Continuare nell’impegno  In altre parole, quelli di noi nella diaspora, e anche quelli in terra di Israele, dovrebbero forse cercare di coltivare quel senso di esilio: l’umiltà di riconoscere che c’è ancora tanto da fare.

Israele senza il sionismo potrebbe avere la possibilità di diventare veramente un sistema politico giusto ed equo per tutti i suoi cittadini, scrive. Ma anche gli ebrei al di fuori di Israele ne trarrebbero vantaggio: la diaspora ebraica può prosperare senza avere necessariamente Israele come centro.

Ho pensato, leggendo il libro, che stesse chiedendo ai lettori ebrei americani di fare qualcosa di difficile: immaginare chi siamo, come ebrei, al di fuori del sionismo o di Israele. Domandarci:cosa ci rende ebrei? Qual è il non ancora fatto che dobbiamo raggiungere? Possiamo immaginarlo? E, se sì, come ci potremmo arrivare? Queste sono tutte domande del tutto utili. Ma so che molti saranno indignati oppure si setiranno  cambiati o forse entrambe le cose, da queste tesi.

Chi, ho chiesto, Magid stava cercando di raggiungere?  A chi è destinato il libro? Ha riflettuto per un momento. Immagino che siano ebrei.

Questo è un articolo di opinione, quindi concludo con un'opinione: spero che gli ebrei leggano questo libro. Penso che aiuterà le persone a orientarsi in pensieri che forse hanno già in mente, ma per i quali non trovavano il modo di esprimerli. E forse saranno d'accordo, e forse no, ma è utile mettersi in discussione. Qualcuno potrebbe addirittura definirla una necessità.

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(1)Shaul Magid, classe 1958, già titolare di cattedra di studi ebraici sull'ebraismo moderno presso l'Università dell'Indiana, è stato professore e presidente del Dipartimento di Filosofia Ebraica del Jewish Theological Seminary of America istituto  ebraico di New York di tendenza conservatrice

NdR:  Sul tema della insostenibilità del sionismo e la necessità di una profonda revisione politica si stanno aggiungendo sempre di più autorevoli voci, ora anche quella di Moshe Zimmermann, storico tedesco-israeliano già direttore del Centro di Storia Tedesca presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, con l’articolo su Haartetz del 29 dicembre   “Il pogrom di Hamas dimostra che il Sionismo ha fallito”  https://twitter.com/Crof/status/1740776779491823828

Traduzione a cura di Claudio Lombardi, Associazione di Amicizia Italo-Palestinese