«Lo Shifa non è solo un ospedale, è uno dei simboli della nazione» | il manifesto
GAZA NEL TUNNEL. Intervista al medico chirurgo Vincenzo Luisi, da vent'anni impegnato in Palestina con il Pcrf: «È un luogo politico che riunisce le aspirazioni di un popolo. Quando Israele lo colpisce non sta solo togliendo un presidio di cura ma sta minando un’istituzione palestinese»
Feriti all’ospedale al-Shifa di Gaza City - Ap
Chiara Cruciati il manifesto 26.3.24
«Assistiamo a una sorta di Nakba degli ospedali, target dell’azione militare israeliana come lo sono le centrali elettriche di Gaza, elementi vitali per la popolazione. Con un duplice intento: non solo nuocere direttamente abbattendo un bene necessario alla popolazione, ma ledere l’identità nazionale palestinese». Vincenzo Luisi è medico chirurgo e presidente di Pcrf-Italia, da due decenni impegnato in missioni mediche in Palestina, tra Gerusalemme e Gaza.
L’ospedale al-Shifa è sotto assedio da giorni. Cosa rappresenta quell’istituto per Gaza e per il suo sistema sanitario?
È l’ospedale più grande e importante di Gaza, meta di tante missioni internazionali organizzate dal Pcrf e da altre associazioni. Non è però solo un ospedale, un istituto di alto livello in termini di qualità e quantità di offerta sanitaria come potrebbe esserlo un centro di eccellenza in Italia. Lo Shifa è un luogo politico: qui il popolo di Gaza cerca e trova una propria identità, quello che vorrebbero essere e diventare, ovvero un paese «completo». A Gaza mancano tante cose ma c’è un grande ospedale. E dentro quell’ospedale si riuniscono aspirazioni sociali e politiche. Per la popolazione è il simbolo dell’idea di nazione. Lo si capisce ancora di più in questi mesi: gli sfollati vanno negli ospedali più che nelle moschee. È anche questa sua natura che ha attirato tanti luminari stranieri, come Matt Gilbert o Christophe Oberlin. Quando Oberlin ricostruisce la mano di un bambino, devastata da una bomba, non è lì solo per realizzare un mirabolante intervento chirurgico, ma anche per dare allo Shifa un ruolo maggiore di quello che già ha. Analogamente, quando l’esercito israeliano compie azioni atte a distruggere lo Shifa, non colpisce solo un ospedale per togliere alla popolazione un presidio di cura ma vuole colpire un’istituzione che rappresenta per i palestinesi la propria identità. Non lo colpisce perché pensa davvero che sia una roccaforte di Hamas. È un atto a suo modo parallelo allo sradicamento degli ulivi o alla distruzione del patrimonio archeologico e storico palestinese.
Quali saranno le conseguenze della distruzione del sistema sanitario gazawi?
Non solo gli ospedali, ma anche i presidi medici sono presi di mira. Sono numerosi e fondamentali. Faccio un esempio: durante l’epidemia di Covid, all’European Hospital di Khan Younis dove il Pcrf lavora, abbiamo trovato una situazione medico-sanitaria per nulla drammatica. L’ospedale non era sotto stress. La ragione l’ho capita parlando con medici e infermieri: se durante l’epidemia, gli scarsi ingressi dentro la Striscia hanno in qualche modo evitato il diffondersi ampio del virus, uno dei fattori decisivi è che il sistema sanitario di Gaza ha sempre privilegiato i centri di medicina primaria, dove le persone – senza andare in ospedale – si recano per farsi visitare e chiedere medicinali. Sono serviti a non far transitare nei pronto soccorso degli ospedali i malati che in Italia invece hanno allargato l’epidemia. La medicina primaria è importante e a Gaza ha salvato parecchie vite. Per questo anche quei centri sono presi di mira, sono la rete sanitaria di base di Gaza, fatta non solo di grandi ospedali. Ma la popolazione gazawi è capace di fare miracoli e riuscirà a risorgere.
Come legge il ruolo di ong come il Pcrf in una situazione come quella palestinese?
Per me l’impegno ventennale medico e chirurgico in Palestina nasce dalla necessità di curare in modo adeguato i bambini malati di cuore. Non l’ho fatto da solo ma coinvolgendo l’ospedale di Massa e altri centri italiani, una cooperazione integrata di diverse discipline e diversi ospedali. Ma l’intento era anche collaborare alla costruzione di un vero e proprio stato. La sanità è fondamentale, come la scuola, compone il cervello e il cuore di una nazione. In una situazione come quella palestinese, senza uno stato riconosciuto e sotto un’oppressione continua anche nei periodi in cui non c’è una guerra «riconosciuta», portare a Gaza dei team chirurgici e discipline avanzate può costituire un mattone nella costruzione di uno stato completo e libero. Ha fatto bene anche al nostro paese: ha coinvolto centinaia di sanitari nelle varie missioni che poi tornando a casa e raccontando quello che avevano visto hanno contribuito a spiegare che non è Israele lo stato che ha il diritto di difendersi.
La medicina come sostegno politico?
Il diritto dei cittadini alla sanità è un elemento fondamentale di uno stato e di una democrazia. In vent’anni in Palestina mi sono trovato ad affrontare delle contraddizioni: se il mio intento era far crescere il sistema sanitario palestinese portando discipline complesse e specialistiche e colleghi eccezionali, a volte mi sono dovuto adattare alle situazioni. La cardiochirurgia pediatrica, ad esempio, è iniziata al Makassed di Gerusalemme che non è un ospedale pubblico, ma è un charitable hospital, un istituto privato finanziato da paesi arabi. Discutibile per l’ortodossia di cooperazione sanitaria a cui mi sono sempre attenuto. L’ho fatto comunque sia perché all’inizio non c’erano altre possibilità sia perché gli ospedali storici di Gerusalemme est andavano rafforzati: sono una barriera fisica all’espansione coloniale dentro la zona palestinese della città.