Con l’operazione in Libano il governo di Benjamin Netanyahu ha di nuovo ignorato le richieste degli Stati Uniti. Non è chiaro però cosa spera di ottenere.
di Adam Shatz
London Review of Books, 19.09.2024
Dal 7 ottobre l’amministrazione statunitense ha dato a Israele tutto quello che Netanyahu ha chiesto, dagli aerei da combattimento F-15 alle bombe al fosforo bianco fino alla copertura diplomatica alle Nazioni Unite. Il presidente Joe Biden e il segretario di stato Antony Blinken hanno sottoscritto la distruzione di Gaza e la “gazificazione” della Cisgiordania. Lì le forze israeliane e i coloni hanno ucciso più di seicento persone nell’ultimo anno, tra cui la cittadina statunitense Ayşenur Ezgi Eygi, colpita da un proiettile durante una protesta pacifica vicino a Nablus. I suoi genitori non hanno ancora ricevuto una telefonata dall’amministrazione Biden, che sostiene di stare “raccogliendo i fatti”. Con l’apparente carta bianca di Washington, il governo di Benjamin Netanyahu ha anche intensificato la sua lunga guerra ombra contro l’Iran, uccidendo funzionari iraniani a Damasco e il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, a Teheran.
Gli statunitensi avevano però stabilito una linea rossa: una guerra israeliana contro il Libano, per la quale Netanyahu avrebbe chiesto l’approvazione pochi giorni dopo il 7 ottobre 2023. Netanyahu voleva aprire un secondo fronte nella speranza di distruggere l’organizzazione sciita libanese Hezbollah, alleata di Hamas, ma Washington si era opposta e Israele aveva accantonato il piano. La guerra di confine a bassa intensità con Hezbollah è continuata, ma entro limiti rispettati da entrambe le parti. Hezbollah ha lanciato razzi contro le città di confine nel nord di Israele, uccidendo una ventina di civili e costringendo quasi centomila persone a lasciare le loro case. Israele ha ucciso centinaia di persone nel sud del Libano, molte delle quali civili, e ne ha fatte sfollare più di centomila. Ma sia Hezbollah sia Israele sembravano calibrare le risposte agli attacchi per evitare una guerra su larga scala. Man mano che l’assalto di Israele a Gaza andava avanti, il suo entusiasmo per un secondo fronte sembrava diminuire: come poteva il suo esercito affrontare Hezbollah se non riusciva nemmeno a sconfiggere Hamas?
Anche il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, aveva buoni motivi per evitare un’escalation. Non vuole che si ripeta la guerra del 2006, che ha devastato parti di Beirut, del Libano meridionale e della valle della Beqaa e ucciso più di mille civili libanesi. Sa anche che l’Iran, il suo principale sostenitore e alleato, non vuole che i missili di Hezbollah, pensati come uno scudo contro un attacco israeliano al programma nucleare iraniano, siano sprecati per Gaza: la solidarietà con la Palestina ha i suoi limiti, anche per il leader dell’“asse della resistenza”.
Colpo psicologico
Perché, allora, dal 7 ottobre Hezbollah ha intensificato gli attacchi missilistici contro il nord di Israele? Gli esperti israeliani sostengono che Hezbollah è responsabile del conflitto perché non si è ritirato dal fiume Litani e perché Gaza non è una sua guerra. Ma Nasrallah insiste nel sostenere la sua parte nell’alleanza con Hamas, l’Iran e i miliziani yemeniti huthi e nell’offrire un minimo di sostegno alla popolazione di Gaza, che è stata abbandonata dagli altri regimi arabi. Ha anche detto chiaramente che i razzi si fermeranno appena sarà raggiunta una tregua. Nasrallah ha mostrato notevole moderazione di fronte alle ripetute provocazioni israeliane, in particolare l’uccisione di Fuad Shukr, alto dirigente di Hezbollah, a Beirut.
È difficile capire come la prudenza di Nasrallah possa sopravvivere agli attacchi contro i cercapersone e i walkie-talkie di Hezbollah il 17 e 18 settembre, che hanno ucciso 39 persone, tra cui quattro bambini, e ne hanno ferite migliaia. Con questa operazione – che secondo il New York Times era in programma dal 2022, molto prima del 7 ottobre – Israele è riuscito, se non altro, a realizzare uno degli attacchi simultanei più spettacolari della storia recente. Ha colpito due volte, in giorni consecutivi; non ha perso uomini; e ha costretto i nemici a rinunciare a ciò di cui nessuno nel mondo moderno vuole fare a meno: i dispositivi elettronici. Il colpo psicologico a breve termine è incalcolabile.
Immaginiamo che un’organizzazione militante, come Hezbollah, avesse compiuto un attacco simile in Israele, facendo detonare esplosivi nei telefoni di soldati e riservisti e uccidendo bambini israeliani. Gli statunitensi non avrebbero aspettato di “raccogliere i fatti” prima di denunciare l’attacco. Anche la reazione di gran parte dei mezzi d’informazione occidentali è stata sorprendente, piena di ammirazione per l’ingegnosità del Mossad. Quello che non vedrete in questi articoli è la parola “terrorismo”, che è tabù come la parola “genocidio” quando il colpevole è Israele.
Il terrorismo, l’uso della violenza contro non combattenti per raggiungere obiettivi politici, è una forma di propaganda, un messaggio sia al nemico sia ai propri elettori. Qual è dunque il messaggio degli attacchi ai cercapersone? Per l’opinione pubblica israeliana, ancora traumatizzata dal 7 ottobre, e in particolare per gli sfollati del nord, il messaggio è che Tel Aviv sta ripristinando la “deterrenza”, il terzo pilastro dell’ideologia del potere israeliano (gli altri sono il ricordo strumentalizzato dell’Olocausto e il consolidamento delle colonie). Per Hezbollah e i libanesi, il messaggio è che Israele può colpire ovunque, in qualsiasi momento, senza preoccuparsi delle vittime civili.
Alcuni libanesi ostili a Hezbollah inizialmente sono stati contenti degli attacchi: Hezbollah controlla di fatto gran parte del Libano e la sua presenza spesso crea risentimento. Ma quando è diventato chiaro che si trattava di un attacco al Libano e poteva essere il preludio di un’invasione, le persone hanno smesso di ridere a spese di Hezbollah. Ancora provato dal collasso finanziario e dall’esplosione al porto di Beirut del 2020, il Libano ha meno probabilità di sopravvivere a un’invasione israeliana di quante ne abbia Hezbollah.
Nasrallah è in difficoltà. Il sistema di comunicazione del movimento è stato danneggiato. Le sue priorità saranno ricostruirlo ed eliminare le spie. Ma non può rispondere con la pazienza degli iraniani, il cui stile è promettere ritorsioni e aspettare anni per realizzarle, perché Hezbollah è in prima linea nella battaglia contro Israele. Se Nasrallah non risponderà, la sua moderazione sembrerà vigliaccheria. Ma se sbaglia i calcoli o risponde in modo da offrire agli israeliani un pretesto per l’invasione, potrebbe trovarsi tra le mani una guerra che eclissa di gran lunga la catastrofe del 2006, mettendo a rischio la posizione di Hezbollah in Libano.
Senza un orizzonte
Israele non si è assunto la responsabilità ufficiale degli attacchi, ma se ne compiace. Il successo a breve termine è innegabile. Gli attacchi hanno messo Hezbollah e l’Iran sulla difensiva. Hanno distratto l’attenzione dagli orrori che Israele commette a Gaza e in Cisgiordania; dall’oscenità di Sde Teiman, un centro di tortura e stupro nel Negev dove sono stati uccisi decine di prigionieri di Gaza; e dalla vicenda degli ostaggi, la più grande minaccia al potere di Netanyahu. Ma cosa succederà ora? Netanyahu sta scommettendo su una reazione eccessiva di Hezbollah? Sta cercando di aprire un secondo fronte e di trascinare l’Iran – e gli Stati Uniti – in guerra? Gli attacchi fanno parte del tentativo di riportare Donald Trump alla Casa Bianca o sta solo tentando di rimanere al potere con una dimostrazione di forza?
Qualunque siano le sue motivazioni, Netanyahu ha reso la guerra molto più probabile, e per le truppe israeliane, già esauste e demoralizzate, sarebbe una guerra più difficile di quella di Gaza. Hezbollah, emerso in seguito all’invasione israeliana del Libano nel 1982, è un antagonista formidabile, probabilmente la forza combattente araba più efficiente con cui lo stato ebraico si sia confrontato dalla sua fondazione. I suoi circa 45mila combattenti possono essere in una posizione di inferiorità dal punto di vista numerico e delle armi, ma, a differenza degli israeliani, avrebbero il vantaggio di combattere nella loro terra. I soldati israeliani hanno trascorso vent’anni sotto il fuoco del Libano meridionale prima che Hezbollah li costringesse a ritirarsi nel 2000. L’attacco ai cercapersone, un successo tattico sotto ogni punto di vista, appare come un’escalation sconsiderata, senza un orizzonte strategico.
Ma la linea di confine tra tattica e strategia può non essere utile nel caso di Israele, uno stato in guerra fin dalla sua creazione. L’identità dei nemici cambia – gli eserciti arabi, Gamal Abdel Nasser, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, l’Iraq, l’Iran, Hezbollah, Hamas – ma la guerra non finisce mai, perché l’intera esistenza di Israele, la sua ricerca di quello che senza vergogna chiama “spazio vitale”, si basa su una guerra perenne contro i palestinesi e chiunque sostenga la resistenza palestinese. L’escalation potrebbe essere proprio quello che Israele cerca, o che è disposto a rischiare, dal momento che considera la guerra come il suo destino, se non la sua ragion d’essere. L’intellettuale statunitense Randolph Bourne ha osservato che “la guerra è la salute dello stato”, e questa è certamente l’opinione dei leader israeliani. Ma sono i civili, arabi ed ebrei, a pagare il prezzo di questa dipendenza dello stato dalla forza. La regione sarà avvolta dalle fiamme finché l’intelligenza e la creatività di Israele saranno dedicate alla ricerca della guerra invece che della pace.
Adam Shatz è un giornalista della London Review of Books. Ha collaboratocon il New Yorker, la New York Review of Books e il New York Times Magazine. È stato corrispondente da Algeria, Palestina, Libano ed Egitto.
Traduzione dal numero dal numero 1582 di Internazionale