Apartheid sudafricano e apartheid israeliano

 

Pambazuka News

11.03.2010

http://www.pambazuka.org/en/category/features/62928.html

 

“Un razzismo che esula dal linguaggio: l’Apartheid di Israele.”

  di Saree Makdisi

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 Sebbene l’Apartheid del Sud Africa può rappresentare il precedente storico più vicino al sistema Israele-Palestina, scrive Saree Makdisi, il trattamento che lo stato israeliano somministra al popolo palestinese sotto molti aspetti eclissa le sofferenze imposte dal governo dell’apartheid del Sud Africa alla popolazione “non bianca”. Sebbene i suoi sostenitori a livello mondiale si rifiutino di ammettere che Israele perpetri ogni  forma di sistematico razzismo, Makdisi mette in rilievo che il razzismo del paese è ‘messo in pratica nella condotta  piuttosto che nel linguaggio’ ed il trattare i palestinesi semplicemente non come inferiori, ma addirittura come subumani, ha messo radici profonde.

 

 


Tra i momenti salienti  dei mio viaggio recente in Sud Africa c’è stato un giro al Museo dell’Apartheid di Johannesburg e nel centro del sobborgo di Fordsie con i miei intimi amici Hanif e Salim Valley (che vi sono cresciuti durante gli anni dell’apartheid – un’esperienza che portò entrambi ad impegnarsi nella causa della giustizia), così come una camminata attraverso i paraggi del sobborgo mezzo demolito di Fietas. 

Come Sophiatown, a Johannesburg e il Distretto Sei di Città del Capo, Fietas negli anni ’70 venne liberata in gran parte della sua popolazione “non-bianca” ( alcuni dei suoi precedenti abitanti furono trasferiti di forza a Lenasia, altri all’Eldorado Park) e poi sistematicamente demolita. I suoi inquietanti spazi aperti con l’erba cresciuta oggi appaiono come  aridi ricordi  del passato violento della città, a ricordare che in determinate circostanze la progettazione  della città, la pianificazione e la zonizzazione nell’immediato sono attività violente. Malgrado il suo aspetto apparentemente inoffensivo, la burocrazia può essere devastante come una bomba. Ciò che era avvenuto a Fietas sta sicuramente ad attestarlo: intere famiglie furono costrette ad andarsene, un sobborgo venne fatto a pezzi, case furono polverizzate dai bulldozer che manifestavano materialmente una nozione razzista della burocrazia per ciò che riguardava la distribuzione appropriata della gente e delle identità etniche in spazi sociali. La logica della divisione per razze è di per sé violenta; spaventosa come può apparire la sua attuazione, il crimine effettivo sta nella logica stessa. 

La violenza della burocrazia e della logica razzista è ovviamente uno dei temi centrali nel Museo dell’Apartheid. Di tutte le prove, quella che io ritenni essere la più impressionante fu probabilmente una delle più inconsistenti dal punto di vista visivo: un elenco, che decorava una parete, delle diverse leggi e dei regolamenti che costituivano il sistema sudafricano dell’apartheid. Quella parete, e diverse altre prove, mi fecero capire realmente la portata della forza della quale l’apartheid del Sud Africa aveva fatto continuamente mostra di sé nel campo della parola e in quello delle immagini, tramite un’infinità di cartelli, insegne, parole, leggi, nomi, classificazioni - una serie senza fine di binomi concepiti attorno a quello definitivo “bianchi/mai bianchi”. Uno degli aspetti più convincenti riguardanti l’apartheid africano consiste nel fatto che non fu assolutamente un sistema logico invisibile o impenetrabile o anonimo, esso osò avere un nome vero e proprio. Dopo tutto, insistette nel richiamare l’attenzione su di sé con il suo sistema di inequivocabili cartelli, etichette ed evidenziatori – su ogni autobus, all’ingresso di ogni bagno. 

Naturalmente non ebbi la possibilità di considerare l’apartheid sudafricano senza valutare la sua importanza per la comprensione dell’odierna situazione in Israele-Palestina. Per chiunque è andato in Palestina, l’area desolata di Fietas sulla quale cresce l’erba appare familiare per una buona ragione: ha il suo equivalente in ogni rovina coperta d’erba di ciascuna delle centinaia di città e di villaggi in Palestina la cui gente, nel 1948; venne trascinata fuori dalle loro case a causa di una logica razziale che stabiliva che essi non potessero vivere in uno spazio destinato presumibilmente (da Dio e dalle Nazioni Unite) ad un altro popolo; come pure in ogni  area desolata di Gaza, scompigliata dal vento, dove molte di quelle case degli stessi profughi erano state demolite una volta ancora dai bulldozer dell’esercito israeliano per sgomberare la visuale e fare spazio per zone di fuoco aperto; ed anche in ogni angolo della Gerusalemme Est occupata, dove bulldozer israeliani avevano demolito case di famiglie palestinesi, deliberatamente e con metodo, nel vano tentativo di conservare il rapporto tra ebrei e non ebrei per ciò che riguarda la popolazione della città (di 72 contro 28 se si è interessati agli squallidi particolari), che era stato stabilito negli anni ’70 dai pianificatori della città – che fino ad ora è stato mantenuto negando ai palestinesi residenti della città il permesso di costruire, demolendo con il bulldozer le loro case nel caso in cui loro avessero costruito ugualmente,  privandoli del loro status di residenti ed espellendoli dalla città tutte le volte che è stato possibile. Dal 2003 soltanto, 2.162 palestinesi gerosolimitani hanno subito questo destino, in quanto espulsi nei sobborghi della West Bank e privati del loro diritto a ritornare nella città ove erano nati, mentre ebrei provenienti dalla Moldovia, da Londra, da Melbourne e da Brooklyn, che mai prima d’allora avevano posto i loro occhi su Gerusalemme, occupavano il loro posto. 

E’ divenuto un luogo comune usare casualmente il termine di apartheid per fare riferimento alle forme di discriminazione che Israele conserva nei Territori Occupati: due diverse reti per i trasporti, due diversi sistemi abitativi, due diversi complessi educativi, e perfino due diversi sistemi legali e amministrativi per i due popoli, l’ebraico e il non ebraico. 

Tuttavia, esattamente la medesima logica discriminatoria è all’opera dalla parte opposta rispetto alle linee armistiziali del 1948 e del 1967, all’interno della stessa Israele. E nonostante la resistenza che si produce quando si applica il termine ai Territori Occupati, risulta praticamente impossibile impostare una conversazione razionale sul sistema dell’apartheid all’opera all’interno di una Israele pre-1967. Molti di coloro che sostengono Israele in Europa e in America, e perfino alcuni dei suoi critici liberali – uno che accetta il giudizio che il sistema di separazione che Israele ha imposto sui Territori Occupati abbia superato una determinata linea di demarcazione – respingono in modo categorico di approvare la possibilità che ci sia una qualche forma sistematica di razzismo nel sedicente stato ebraico. Per loro, la Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1975 che denunciava il Sionismo essere pari ad una forma di Razzismo – la sola risoluzione delle Nazioni Unite ad essere successivamente annullata – era essa stessa una pericolosa forma di razzismo.  

Quando viene posta allo stesso livello di Israele allora, l’accusa di apartheid non produce alcuna contro-argomentazione avallata da  contro-evidenza, ma piuttosto muraglie di vere e proprie smentite dure, se non esplosioni indistinte di rabbia cieca, come se  la smentita o il mero furore   potessero impedire definitivamente la discussione. E’ un fatto sbalorditivo che, ad oggi, correnti politiche dominanti, giornalisti e normali cittadini negli Stati Uniti e ovunque, perfino nello stesso Sud Africa – ne ho avuta testimonianza io stesso mentre svolgevo le mie lezioni al Wits nel febbraio del 2010 – si rifiutino di impegnarsi nella discussione, sulla testimonianza e i fatti relativi a questa questione; si aggrappino testardamente ad una ripetizione, come fosse un mantra, di miti resi completamente inutilizzabili dall’eccessivo uso. “Il popolo ebraico sa che cosa vuol dire essere oppressi, subire delle discriminazioni, e perfino essere condannati a morte a causa della loro religione,” disse Nancy Pelosi, il portavoce della Camera dei Deputati degli Stati Uniti, in un debole tentativo di contestare la principale affermazione  contenuta nel libro del 2006 del Presidente Carter ‘Palestina: pace non apartheid’ ( il quale aveva addirittura escluso esplicitamente dalla sua analisi Israele all’interno dei suoi confini anteriori al 1967, limitandola ai soli Territori Occupati). “Essi sono stati leader nella lotta per i diritti umani negli Stati Uniti e ovunque nel mondo. E’ sbagliato insinuare che il popolo ebraico sosterrebbe un governo in Israele o da qualche altra parte che istituzionalizza l’oppressione su base etnica e respinge i democratici che avanzano accuse con vigore.” Un tale rifiuto ad annotare un argomento razionale, e di ripiegare su un piano equivalente alla superstizione – Gli ebrei sono degli esseri sovrumani,  incapaci di fare del male – non è limitato solo agli Stati Uniti. “ Se si bollerà Israele come stato di Apartheid, allora si attaccheranno anche…….i valori del Canada,” ha affermato il parlamentare canadese Peter Shurman in una sdegnata denuncia dell’annuale Israeli Apartheid Week degli universitari canadesi, che era stata condannata dal parlamento di Ottawa. “L’uso di espressioni quali ‘Israeli Apartheid Week’  si equivalgono approssimativamente a frasi di odio che si possono dire senza essere arrestati, ma non sono certo che ciò in realtà non oltrepassi tale  linea di demarcazione,” ha ribadito Shurman. 

Né tali forme di smentite sono limitate ai politici. Qui, ad esempio, Roger Cohen, redattore agli esteri del The New York Times, è colui che, dapprima ha criticato la politica di Israele nei Territori Occupati, per scrivere poi, proprio l’altro giorno, sul Washington Post: “L’Israele di oggi e il Sud Africa di ieri non hanno quasi nulla in comune. Nel Sud Africa, la minoranza bianca della popolazione governò con durezza la maggioranza nera del popolo. Ai non-bianchi erano negati i diritti civili e, nel 1958, venne tolta loro perfino la cittadinanza. Al contrario, gli arabo-israeliani, circa un quinto della popolazione del paese, hanno gli stessi diritti civili e politici degli ebrei-israeliani. Arabi seggono alla Knesset e prestano servizio militare nell’esercito, sebbene la maggior parte sia esentata dalla leva. Qualsiasi cosa sia  – e ciò appare in modo sospetto equivalente ad una democrazia liberale – non può essere apartheid.” 

Ho saputo da diverso tempo, naturalmente che, non importa quante volte giornalisti come Cohen ripetono l’affermazione che gli “arabo-israeliani” – cioè i cittadini palestinesi di Israele – hanno gli stessi diritti civili e politici degli ebrei-israeliani, quello semplicemente non è il caso. Una cieca recitazione può essere confortante, ma nei fatti non muta la realtà. Ciò che ho appreso dal mio viaggio nel Sud Africa è, ciononostante, che il parallelismo tra le due situazioni (Sud Africa da una parte e Israele con i Territori Occupati dall’altra) è molto più consistente di quanto venga pubblicamente ammesso negli interventi, sebbene esistano alcune notevoli differenze. 

Una cosa che ho imparato nel mio viaggio è che ogni singola legge importante dell’Apartheid sudafricano che ho visto riportata sulla parete del Museo di Johannesburg ne ha una totalmente equivalente  nell’Israele di oggi. 

Il famigerato Population Registration Act del 1950, che assegnò ad ogni sudafricano una identità razziale in base alla quale lui o lei aveva accesso (o era negato) ad una diversa serie di diritti, ha un diretto equivalente nelle leggi israeliane che assegnano ad ogni cittadino dello stato una distinta identità nazionale. Secondo la legge israeliana, non esiste nulla che stia a indicare la nazionalità israeliana. Come sentenziò la Corte Suprema negli anni ’70, “Non esiste una nazione israeliana distinta dal popolo ebraico.” In tal modo, i cittadini ebrei dello stato vengono classificati possedere “nazionalità ebraica”, ma i non-ebrei, anche se possono essere cittadini dello stato, non sono esplicitamente membri della “nazione” – ad esempio, per gli ebrei di tutto il mondo, che vogliano essere riconosciuti o no, lo stato di Israele afferma di essere il loro. Di conseguenza, l’identità nazionale dei cittadini palestinesi di Israele – che costituiscono il 20 % della popolazione reale piuttosto che solo  di quella teorica dello stato – è negata e cancellata ad ogni livello istituzionale. A differenza dei cittadini ebrei, ai quali è riconosciuto il possesso di una identità nazionale, la legge israeliana priva metodicamente i cittadini palestinesi della loro identità nazionale e li riduce ad una mera  espressione etnica, che rappresenta il motivo per cui è stato inventato il termine di “arabi-israeliani” per far riferimento a loro. (Tale termine non è stato mai utilizzato per indicare gli ebrei-arabi che compongono una parte considerevole della popolazione ebraica di Israele – gli effettivi arabo-israeliani – perché nel loro caso, ovviamente, Israele vuole cancellare la loro identità araba ed assimilarli in quanto ebrei, dal momento che nel caso dei cittadini palestinesi resta valido il contrario: essi non possono essere assimilati come ebrei, così viene messa in rilievo la loro indigesta arabicità). 

Questo gioco di prestigio è molto difficile da scacciare. Ho avuto diversi diverbi infruttuosi con la redazione del Los Angeles Times sull’uso da parte del giornale del termine di “arabi-israeliani” per far riferimento ai cittadini palestinesi di Israele. Bene, non propriamente delle discussioni – Io sostengo, offro la prova di mostrare la formulazione artificiosa dure e fuorviante del termine e il punto fin dove i palestinesi all’interno di Israele lo rifiutano totalmente e  chiamano sé stessi palestinesi. ma gli editori del giornale alzano le loro spalle e dicono che la mia può essere una buona idea, ma……… 

Naturalmente, questo pretesto linguistico serve ad uno scopo: è ciò che consente alle persone altrimenti perfettamente razionali come Roger Cohen o i redattori di Los Angeles Times di venire e di fare un uso  spensierato del discorso dello stato di accettare la cancellazione da parte di Israele dell’identità palestinese nella totale e beata inconsapevolezza che questo è ciò che essi stanno facendo, e d’altra parte di venirsene fuori miracolosamente dicendo che lo stato tratta tutti i suoi cittadini allo stesso modo: l’atto di discriminazione non è percepibile perché è impenetrabile. Come si può, dopo tutto, ammettere che Israele faccia discriminazioni nei confronti della sua popolazione palestinese, quando non c’è nulla di tutto ciò? Quali palestinesi? Non ci sono dei palestinesi all’interno di Israele, solo degli “arabo-israeliani”. Ma questo è il punto: la negazione, la cancellazione, l’atto di discriminazione c’è già prima che venga fatta la dichiarazione. Non ci sono parole per questo; non  si possono pronunciare. 

Infatti, questo è soprattutto ciò che distingue marcatamente l’apartheid israeliano dall’apartheid sudafricano. Mentre l’ultimo ha insistito nel darsi un nome e nel attrarre l’attenzione su di sé usando continui segnali verbali e visivi, il primo sopprime e occulta le espressioni di razzismo che esso incarna proprio del tutto. Coloro che appoggiano il razzismo in Israele possono farlo in totale libertà senza dover tener conto del fatto che questo è ciò che essi stanno facendo. E’ l’esempio ultimo di ciò che ha teorizzato di recente David Theo Goldberg come “razzismo senza razzismo”. In breve, questo è l’uso più brillante di una negazione che è stata richiesta e di una cancellazione che è stata perfino messa in pratica nel mondo, sebbene, come per tante cose in Israele (ad esempio, costruire il Parco dell’Indipendenza a Gerusalemme su di un cimitero palestinese, o inventare la categoria giuridica degli “assenti presenti” per far riferimento a quei palestinesi che erano stati scacciati dalle loro case nel 1948, ma che erano rimasti all’interno dei confini dello stato, o  disegnare paesaggi sul lato israeliano del muro della West Bank tanto da oscurare o ridurne la sua vera portata), è una brillantezza meramente priva di significato, e perciò in ogni caso non proprio una brillantezza, ma piuttosto un maggiore esempio ancora di forme incredibili di ritrattazione, a proposito delle quali Israele e i suoi ammiratori sono così abili, anzi, sulle quali l’ammirazione dell’occidente liberale per Israele confida proprio per la sua esistenza. 

Alla fine del giorno, il Sud Africa bianco, a prescindere dalla sua posizione ideologica, dovette guardare l’insegna che diceva “bianchi/mai bianchi” e adeguarsi conseguentemente – un imbarazzo che con grande efficacia il Museo dell’Apartheid di Johannesburg ripropone al suo ingresso. L’israeliano ebreo, e i sostenitori stranieri di Israele, non è mai stato costretto a fare quel confronto, non ha mai dovuto fare quella scelta – gli è stato reso possibile per prima cosa dalla lingua: il razzismo è liquidato prima e reso incomprensibile. Gli israeliani ebrei e gli ammiratori dello stato possono affermare che Israele tratta tutti i suoi cittadini allo stesso modo, non tanto perché essi non si rendono conto che la discriminazione opera al livello della nazionalità piuttosto che a quello secondario della cittadinanza, ma piuttosto perché , diversamente dai bianchi del Sud Africa, essi sono risparmiati  dal dover fare i conti con tale realizzazione. Ad essi è permesso, ed essi permettono a sé stessi, di vedere giusto tramite ciò, di concedersi il disconoscimento di una realtà sgradevole che di fatto li sta guardando fissa in volto, di disconoscere continuamente gli avvenimenti quando qualcun altro insiste nel catalogarli, documentarli e presentarli – di esplodere in una furia cieca e piena di risentimento se i fatti vengono imposti loro con troppa insistenza. 

Tuttavia, spogliare i cittadini palestinesi della loro identità nazionale non è solo una semplice umiliazione. In Israele, diversi diritti fondamentali – come l’accesso alla proprietà della terra e della casa, per esempio – sono concomitanti all’identità nazionale e non la minore categoria di una mera cittadinanza. Perciò, ebrei che non sono cittadini, in effetti hanno più diritti dei cittadini che non sono ebrei; in nessun altro paese sulla terra  si ha che dei non-cittadini, privilegiati per motivi razziali, godano di maggiori diritti dei residenti. 

Perciò, il Group Areas Act del 1950, che assegnò aree differenti del Sud Africa per l’uso residenziale dei diversi gruppi razziali, ha un diretto equivalente nel sistema di norme che determinano l’accesso alla terra all’interno di Israele (come pure all’interno dei Territori Occupati, naturalmente, ma in questo caso sto parlando di un Israele pre-1967). I cittadini palestinesi dello stato sono giuridicamente esclusi dal potersi stabilire in quelle che vengono designate ufficialmente come “insediamenti di comunità ebraiche” o “insediamenti rurali ebraici” organizzati in consigli rurali che controllano la maggiore estensione di terra in Israele. Difatti, ad essi è vietato vivere su terra dello stato o su terra posseduta  da “istituzioni nazionali” come il Fondo Nazionale Ebraico (JNF), che costituisce il 93 % della terra all’interno di Israele, quasi ogni centimetro quadro della quale è data da proprietà palestinesi espropriate con la violenza dal nuovo stato dopo la pulizia etnica della Palestina del 1948. Da nessuna parte, infatti, la portata dell’istituzionalizzazione di questo tipo di discriminazione è più palesemente evidente che nelle dichiarazioni del JNF, che si promuove come “il custode della terra di Israele per conto dei suoi proprietari – dovunque il popolo ebraico”. Questa istituzione non solo riconosce, ma giustifica con orgoglio il suo primato di lunga data della discriminante avversa ai cittadini palestinesi con il rimarcare  che quello “non è un ente pubblico che opera per conto di tutti i cittadini dello stato. La sua fedeltà è rivolta al popolo ebraico e la sua responsabilità è solo nei suoi confronti [cioè, del popolo ebraico]. In quanto proprietario della terra del JNF, il JNF non deve comportarsi in modo equo nei confronti di tutti i cittadini dello stato.” Oltretutto, fa notare, “la Knesset di Israele [cioè, il parlamento] e la società israeliana hanno espresso la loro opinione secondo la quale la distinzione tra ebrei e non-ebrei, che sta alla base della visione sionista, è una distinzione che è consentita,” e, anzi, che la sua assegnazione della terra ai soli ebrei “è in completo accordo con i principi fondativi dello stato di Israele in quanto stato ebraico e che il valore dell’uguaglianza, persino se lo si applica alle terre del JNF, dovrebbe recedere di fronte a questo principio.” 

Come risultato di tutte le forme di discriminazione con le quali essi devono competere in quanto non-ebrei che vivono nel sedicente stato ebraico (sedicente malgrado la continuativa presenza non-ebraica, dei palestinesi), il 10 % circa dei cittadini palestinesi di Israele  vive oggigiorno in “villaggi non-riconosciuti” che sono antecedenti alla formazione dello stato di decenni se non di secoli, ma che non compaiono ancora in alcuna mappa ufficiale. Essi non sono perciò collegati con la rete elettrica nazionale, con il sistema di distribuzione idrica nazionale, la rete telefonica o il sistema internet. Essi non esistono ufficialmente, se non per il fatto che tutte le case di questi villaggi sono candidate alla demolizione per la loro esistenza su terra che lo stato ha definito, retroattivamente, di uso agricolo, per il non esserci dopo tutto alcun “residente” su di esse. In questo caso è ancora al lavoro  la stessa logica di profonda negazione della negazione: come si può negare le condizioni di vita in villaggi che in primo luogo, secondo lo stato, non esistono ufficialmente? Non c’è letteralmente nulla da negare! 

Il The Black Education Act del 1953, che creò un sistema educativo separato e diseguale per i sudafricani neri, ha un diretto equivalente nelle norme amministrative che hanno creato sistemi educativi separati e disuguali per cittadini ebrei e non-ebrei dello stato di Israele (e ancora la stessa cosa funziona pure per i Territori Occupati). I nudi dati statistici chiariscono il tutto: lo stato mette a disposizione 1.600 asili sovvenzionati, per esempio, ma di questi solo 25 si trovano in città palestinesi. Solo 4.200 degli 80.000 bambini israeliani al di sotto dei quattro anni di età che frequentano l’asilo sono palestinesi, sebbene questo numero, se fosse stato proporzionale alla reale popolazione, esso avrebbe dovuto essere superiore a  20.000. Dopo l’asilo, Israele investe più di tre volte tanto, su una base pro capite, in uno studente ebreo di quanto non faccia per uno non-ebreo (cioè palestinese). L’elenco attuale dello stato, riguardante le 553 città e villaggi che hanno la precedenza nel finanziamento per l’istruzione, esclude tutte le città palestinesi all’interno di Israele all’infuori di quattro villaggi. Ci sono 25 scuole d’arte speciali per bambini ebrei e nessuna per bambini palestinesi – tutti cittadini dello stato. E al più alto livello del suo sistema scolastico, Israele mette a disposizione molti più corsi universitari a studenti ebrei che non a quelli palestinesi. Come risultato di tutte queste forme di discriminazione, di procedure palesemente discriminatorie di ammissione e di immatricolazione – e malgrado il fatto che i palestinesi tradizionalmente diano una grande importanza all’istruzione dei loro figli, un fatto confermato dai numeri,  grandi in modo sproporzionato, di palestinesi tra l’intelligentsia araba – una proporzione molto più grande di studenti ebrei ce la fa a superare la scuola superiore, ad essere accettata all’università ed a laurearsi. Solo il 10 % degli studenti universitari d’Israele è dato da palestinesi, per esempio, sebbene, parlando in modo relativo, esso dovrebbe essere il doppio di quel numero. Solo il 3 % dei suoi studenti nei dottorati di ricerca sono palestinesi. Solo l’1 % dei docenti universitari è palestinese. 

E la lista continua. Il South Africa’s Prohibition of Mixed Marriages Act del 1949 ha il suo equivalente nelle leggi israeliane che vietano agli ebrei di sposare dei non-ebrei (d’altra parte, non esiste alcun divieto verbale che segnala questo impedimento in quanto tale, ma in Israele non esiste alcun ordinamento relativo al matrimonio civile, per cui ad un ebreo è permesso sposare solo un altro ebreo, e poi solo secondo il rito religioso ortodosso); il The Natives (Urban Areas) Consolidation Act del 1945  e il Black (Native)Amendment Act del 1952 che ordinavano ai sudafricani neri di portare con sè i lasciapassare per regolare il loro accesso alle aree urbane hanno equivalenti in diverse disposizioni di legge israeliane che regolano e controllano gli spostamenti dei palestinesi – ma non degli ebrei – all’interno dei Territori Occupati e tra i Territori Occupati  Gerusalemme e Israele; il The Public Safety Act del 1953 ha il suo equivalente nelle disposizioni militari israeliane che autorizzano nei Territori Occupati una detenzione di lungo termine dei palestinesi, senza processo (ma non degli ebrei, che sono protetti dal diritto civile israeliano) – a partire dal 1967 un totale complessivo di 650.000 palestinesi sono stati tenuti reclusi da Israele, circa il 20 % della popolazione complessiva; il The Promotion of Bantu Self-Government Act del 1952, che dette mandato di un maggiore riconoscimento ufficiale a Bantustan come il Transkei, e il The Bantu Homelands Constitution Act del 1971, hanno il loro equivalente nella creazione, grazie agli Accordi di Oslo, di una cosiddetta Autorità Palestinese per la gestione degli affari dei palestinesi (ma non degli ebrei) residenti nei Territori Occupati. 

Infatti, proprio come il Sud Africa creò il Transkei, il Ciskei e il Bophuthatswana allo scopo di poter cancellare quanti più neri fosse possibile dai registri della propria popolazione del Sud Africa, Israele conserva le sacche della West Bank e tutta Gaza come aree recintate per la popolazione non-ebrea del territorio, mentre colonizza ciò che rimane con la sua stessa popolazione allo scopo di poter avere la sua torta e di poterla pure mangiare: incorporare la terra (colonizzandola) ma non la popolazione, e quindi sostenere la rivendicazione che si tratta di uno stato ebraico finché non devia dal minimo necessario il numero dei non-ebrei che ufficialmente vivono all’interno dello stato – e quindi perpetuare la storia non reale che non priva del diritto del voto la maggior parte della popolazione del paese che è data da palestinesi. Naturalmente Israele priva del diritto del voto la maggioranza palestinese del paese: oggigiorno ci sono 11 milioni di palestinesi e 5 milioni di ebrei israeliani. La manipolazione delle popolazioni e dei territori compiuta da Israele oscura, tuttavia, per quanto possibile queste circostanze materiali: 1 milione di palestinesi sono cittadini di Israele dissolti linguisticamente entro la categoria degli “arabi israeliani”, così loro non contano; 6 milioni di palestinesi continuano a vivere nell’esilio al quale furono costretti con la violenza nel 1948 da Israele, che continua a negare loro il diritto giuridico e morale al ritorno, così pure loro non contano. Quindi rimangono solo i 4 milioni all’incirca di palestinesi nei Territori Occupati, ed essi hanno la benedizione di un’autonomia illusoria (o per lo meno la chiacchiera che un giorno avranno l’autonomia) e dell’Autorità Palestinese collaborazionista con la sua dirigenza irrimediabilmente compromessa e politicamente fallita. Il fatto che Israele abbia conservato – sebbene si sia rifiutata testardamente di risolverne lo status – i Territori Occupati per oltre quarant’anni, o per due terzi della sua stessa esistenza in quanto stato, smentisce la incongruente provvisorietà dello status dei territori. Israele ha colonizzato, ripopolato e sviluppato parzialmente la West Bank e Gerusalemme Est; mezzo milione dei suoi stessi cittadini vi si sono installati; vi ha esteso l’applicazione delle sue proprie leggi; ne ha utilizzato in ogni singolo giorno le risorse idriche e lo spazio aereo. In pratica Israele ha annesso la West Bank; solo nominalmente non l’ha fatto. E il solo motivo per cui non l’ha fatto è perché solo la finzione che la West Bank (e Gaza) si trova al di fuori dello stato permette ad Israele di portare avanti la simulazione sul piano delle parole che è smentita dalla realtà materiale – la quale permette, ad esempio, a Roger Cohen  di venire a dire, bene, sì, ci può essere una discriminazione nella West Bank, “ma non è propriamente una parte di Israele”, così non conta realmente, e in ogni modo quel territorio sarà eventualmente “il cuore” di uno stato palestinese ( qualcosa su cui si è discusso per quasi due decenni, per metà del tempo in cui la West Bank è stata effettivamente occupata, senza che ciò facesse la sia pur minima differenza sul terreno – ad esempio, la popolazione delle colonie è sostanzialmente triplicata a partire da quando ci furono i primi cosiddetti colloqui di pace nel 1991). 

Ci sono, ovviamente, maggiori diversità tra l’apartheid all’interno di Israele e l’apartheid in Sud Africa. 

Ho già evidenziato una delle maggiori diversità: la perspicuità dell’apartheid sudafricano e la relativa inintelligibilità – impenetrabilità – dell’apartheid israeliano. Da nessuna parte in Israele o nei Territori Occupati c’è un cartello che dice in modo nudo e crudo “per soli ebrei”. Il razzismo è applicato nella pratica piuttosto che espresso con le parole. Il che è ciò che mette i sostenitori di Israele in grado di essere coinvolti in interminabili affermazioni equivoche, che spaccano il capello in quattro, a cui sono così spesso ridotti per giustificare una forma di razzismo che smentisce che sia così ciò che lo è. Ad esempio, all’accusa che nella West Bank ci sono due diversi sistemi viari, uno per ebrei (che collega le colonie tra loro e con Israele) ed uno per i non-ebrei, la replica – una che è abitualmente diffusa dall’hasbara [spiegazione, n.d.t.] israeliana e dalle organizzazioni di propaganda negli Stati Uniti e in Europa, come CAMERA, la cui capacità di contorsione linguistica è così estrema da essere quasi comica – invariabilmente è quella di insistere che un sistema viario è riservato a tutti i cittadini israeliani, non solo agli ebrei. Nel senso più strettamente  letterale – al livello del linguaggio che ha cessato di fungere come linguaggio perché non comunica più significato, perché non è destinato a farlo – questo è vero. D’altro canto, nelle colonie della West Bank vivono solo ebrei ( i palestinesi, che essi siano cittadini di Israele o no, non hanno il permesso di vivere là in quanto non sono ebrei), così in pratica se non nominalmente un sistema viario è realizzato separatamente per gli ebrei. Ancora, come con così tante altre cose, ciò che è in gioco qui è una forma di negazione che non può portare essa stessa al riconoscimento di sé per ciò che è. Lo si deve al fissare ossessivamente lo sguardo al linguaggio, non notare i significati assenti in quanto non sono addotti nel linguaggio – “dove si dice ‘per soli ebrei’?” – che rende possibile ai fautori stessi di Israele di evitare di riconoscere una realtà materiale: non ci deve essere un cartello sul quale sta scritto in parole “per soli ebrei” perché solo gli ebrei possano usare in pratica quella strada. A differenza dell’apartheid in Sud Africa, ciò che vediamo in Israele è un razzismo che evita l’evidenza delle parole; razzismo senza un proprio termine, o, secondo la formulazione di Goldgerg, razzismo senza razzismo. Il ché, tuttavia, non lo rende un po’ meno razzista.  

Un’altra differenza è data dal fatto che il sistema dell’apartheid all’interno del Sud Africa, per tutta la sua violenza e brutalità, è mai stato così violento e così brutale come il sistema che si desume all’interno di Israele e nei Territori Occupati. Il movimento dei neri in Sud Africa era controllato, non completamente bandito, com’è nel caso, ad esempio, di Gaza. Il governo del Sud Africa inviò carri armati Caspar e soldati con fucili dentro Soweto – non carri pesanti ed elicotteri apache che lanciano missili Hellfire ed F-16 che scaricano una tonnellata di bombe sulla popolazione civile. Il Massacro di Sharpeville fu un fatto eccezionale in Sud Africa; nel caso dei palestinesi, sarebbe difficile – benché naturalmente questo non è per sminuirlo – compilare una lista di massacri che si prolungano da Deir Yassin e Tintura, negli anni ’40, a Kufar Kassem, Rafah e Khan Younis , negli anni ’50, a Sabra e Chatila, negli anni ’80, a Nablus e Jenin , negli anni 2000, a Gaza nel 2008-2009. Non c’è nulla di simile della trascorsa aggressione di Israele a Gaza del 2008-2009 in tutta l’intera storia dell’apartheid in Sud Africa: l’assassinio di una persona su mille; la distruzione di decine di migliaia di case in una sola volta; l’interruzione dei rifornimenti essenziali di cibo, medicine, combustibile e materiale da costruzione alla popolazione costituita in gran parte – com’è a Gaza – da bambini, condannandoli alla malnutrizione; la malignità compiaciuta alle disgrazie altrui sulla stampa, perché tutto il mondo si renda conto ( sebbene non che questo faccia un briciolo di differenza), come fece di recente il collega  israeliano di Harvard Martin Kramer, che la riduzione della popolazione dovuta all’assedio e alla malnutrizione avrebbe ridotto anche il numero dei “giovani superflui” e conseguentemente avrebbe ridotto la minaccia rappresentata da Gaza per Israele. 

Veterani, reduci dalla lotta contro l’apartheid in Sud Africa, che visitano Israele e i Territori Occupati ripetutamente affermano la stessa cosa. “ E’ peggio, peggio, peggio di quanto abbiamo sopportato,” ha fatto notare  Mondli Makhanya,  editore capo del Sunday Times del Sud Africa, dopo una recente visita in Palestina. “Il livello dell’apartheid, del razzismo e della brutalità  è addirittura peggiore del peggiore periodo di apartheid. Il regime di apartheid considerava i neri come esseri inferiori; credo che gli Israeliani non considerino affatto  i palestinesi come esseri umani.” 

E, naturalmente, quella è essenzialmente la maggiore differenza tra l’apartheid sudafricano e l’apartheid israeliano. C’è una differenza abissale tra inferiorità e disumanizzazione: è la stessa differenza che c’è tra sfruttamento ed annientamento. Come il Museo dell’Apartheid di Johannesburg chiarisce molto bene, in Sud Africa il sistema venne progettato per sfruttare il lavoro dei neri, per impiegare la forza lavoro della popolazione  nera nelle case, negli uffici e nelle miniere d’oro, ma negando ad essi di avere uguali diritti – perché la elite bianca  avesse il suo dolce e lo potesse pure mangiare. Il sistema israeliano non ha nulla a che fare con lo sfruttamento della forza lavoro palestinese; il lavoro derivante dai Territori Occupati è al momento totalmente irrilevante per l’economia israeliana, avendolo compensato con i recenti immigrati provenienti dalla ex Unione Sovietica e con l’offerta di lavoratori a basso costo provenienti dal sud-est asiatico, resa possibile dai circuiti globali di scambio. E’, com’è sempre stato, nel caso della rimozione di un popolo e la sua sostituzione con un altro, un processo che ha avuto inizio ma che non è finito nel 1948, e che continua fino ai giorni nostri: ogni giorno una casa palestinese viene abbattuta a Gerusalemme, ogni giorno una famiglia palestinese viene espulsa da quella città fantasma che è il centro di Hebron, ogni giorno una gerosolimitana palestinese viene spogliata dei suoi titoli di residenza e viene espulsa dalla città ove è nata, ogni giorno una famiglia palestinese viene mandata in frantumi e distrutta a causa di una legge israeliana che venne istituita nel 2003 che proibisce a un palestinese in Israele o a Gerusalemme di sposare  e di vivere con coniuge proveniente dai Territori Occupati, anche se un ebreo israeliano può sposare un colono ebreo della West Bank ed essi possono vivere insieme dove preferiscono ( quando una legge simile venne proposta al colmo dell’apartheid in Sud Africa nel 1980, essa venne rigettata sbrigativamente dall’alta corte del paese come un’inaccettabile violazione del diritto alla famiglia del popolo nero; l’alta corte di Israele ha confermato nel 2006 questa nuova legge del paese). 

In una parola, come ho messo in evidenza in un altro contesto, l’apartheid sudafricano fu bio-politico in natura, preoccupato della gestione e dell’amministrazione del lavoro nero esistente. Quello di Israele è, per adottare la frase che Achille Mbembe ha così efficacemente elaborato,  necropolitico, interessato alla distruzione e cancellazione dei palestinesi, qualcosa nei confronti della quale ciascun palestinese resiste ogni singolo giorno, magari con l’atto di continuare testardamente ad esistere. 

Questa necropolitica conta, tuttavia, in modo decisivo e assoluto sul sistema di imperscrutabilità e di impercettibilità che permette agli israeliani e ai sostenitori di Israele di continuare a praticare e avallare una forma violenta e volgare di razzismo senza dover fare i conti con, e riconoscere il fatto che, questo è precisamente ciò che essi stanno facendo. In altri contesti ho sostenuto – più di recente nel mio articolo Inchiesta Fondamentale a proposito della costruzione del cosiddetto Museo della Tolleranza (in realtà una specie di santuario del sionismo) proprio sopra le rovine di uno dei più importanti cimiteri musulmani di Gerusalemme – che oggigiorno in pratica ci sono due forme centrali di sionismo: un sionismo intransigente che vediamo in opera, per esempio, nelle dichiarazioni di Avigdor Lieberman, attuale ministro degli esteri di Israele, che ha fatto della richiesta pubblica di espulsione dei cittadini palestinesi di Israele, che implica una sorta di brutale sincerità, la piattaforma della sua fulminea ascesa nella politica israeliana; e un sionismo conciliante  - quello ancora dominante – i cui seguaci, che in virtù dei cortocircuiti linguistici ed emotivi ho rappresentato in questa occasione, si sono risparmiati di dover fere i conti con e riconoscere onestamente che ciò che loro sostengono è un’organizzazione razzista; è solo sulle basi di tale enorme imperscrutabilità , di fatto, che essi possono continuare a sostenerla. Questa rappresenta quel tipo di posizione sionista che sostiene, per esempio, in modo completamente innocente, che è un comportamento anti-semitico quello di criticare il sionismo in quanto esso rappresenta solo il diritto del popolo ebraico di possedere una patria nazionale come per ogni altro popolo. Nel domandare con tale insistenza perché mai agli ebrei dovrebbe essere negato quello stesso diritto che possiede ogni altro popolo, il sionismo conciliante conta sul corto circuito emotivo, di cui ho trattato qui, per disconoscere la vera domanda che  sta ponendo, perché il retro-disco della stessa questione non è se gli ebrei hanno il diritto ad una patria, esso è invece se questo diritto rende nullo il diritto proprio del popolo palestinese ad una patria (e la risposta a tale domanda è assolutamente negativa). Solo con il concentrarsi in modo talmente ossessivo e con l’essere assorbito sulla parte anteriore della questione permette al sionismo conciliante di evitare di dover fare i conti con il suo lato odioso e con il fatto incancellabile che non c’è, non c’è stato e non ci sarà una via per creare uno stato ebraico in Palestina senza negare o annullare la rivendicazione palestinese alla stessa terra ed ai diritti storici che si accompagnano a questa pretesa. Piuttosto che trasformare la negazione dei diritti palestinesi in una componente esplicita della sua posizione ideologica – come fa il sionismo intransigente – il sionismo conciliante rimuove tale negazione dal suo campo visivo, difatti, per cominciare,  negare che non c’è nulla da negare. E, come dissi in precedenza, la grande forza del sistema dell’apartheid di Israele sta nell’essere così strutturato da non far mai il grande errore dell’apartheid sudafricano di costringere la gente ad affrontare la schiettezza e la volgarità del suo razzismo. In tal modo essi possono appoggiarlo ed andare avanti,  ritenendosi delle persone virtuose, morali e progressiste, tecnologicamente chic, amorevoli con gli animali e riguardosi con l’ambiente. 

Tutto ciò dove porta i palestinesi e coloro che difendono i loro diritti? 

Ci sono, penso, due deduzioni immediate che si possono trarre da questa dissertazione. Un punto è questo: la ragione per cui i negoziati tra palestinesi e israeliani sembrano spesso così inconsistenti è che tutto lo scopo del cortocircuito linguistico e delle forme di negazione della negazione, a proposito delle quali ho qui dissertato, consiste nell’evitare il negoziato, o almeno superarlo rendendo inaccessibile il nocciolo del conflitto tra sionismo e i palestinesi. La grande forza di un razzismo che esiste senza che sia espresso dalle parole – che sia immune dalle parole – sta nell’essere anche completamente indifferente al linguaggio: ogni tentativo di evidenziarlo dicendo “questo è il problema” verrà a incappare nella risposta assolutamente sincera “quale problema?” Quale razzismo? Quali villaggi? Quale rete viaria? Quali palestinesi? Questo è un complesso strutturale per il quale non esiste alcuna soluzione a livello delle parole e quindi del negoziato diplomatico (figurarsi un negoziato tra due parti totalmente impari).  Quindi la evidente inutilità dei tentativi di porre un termine a questo conflitto con l’accrescere la consapevolezza tra gli israeliani o i sostenitori di Israele sparsi nel mondo, o con l’appellarsi ai loro impulsi migliori, l’assoluto ostinato rifiuto di riconoscere la realtà, trova una conferma ogniqualvolta conferenze sui diritti dei palestinesi si sono incrociate a giro per il mondo con quel muro tediosamente familiare di consistenti negazioni e con quel rifiuto totale di prendere in considerazione fatti, evidenza, ragione, leggi, principi – in caso contrario esplosioni, a dire il vero, di scomposto furore – ai quali noi tutti siamo abituati. 

Il secondo punto è che dovrebbe essere perfino più ovvio di quello che mai appare, in vista del sistema di apartheid in atto sia in Israele che nei Territori Occupati – un sistema di apartheid che è inseparabile dal progetto di inventare e sostenere il pretesto di uno stato ebraico in quello che di fatto è un paese profondamente eterogeneo – non ci può essere alcuna soluzione pacifica e giusta del conflitto sionista con i palestinesi fintantoché non si desiste dal tentativo di mettere un popolo al posto di un altro , di imporre una identità monoculturale ad un paese multiculturale, e le sue istituzioni non vengono completamente soppresse. Creare una istituzione statale palestinese nella West Bank accanto ad Israele la cui rivendicazione di ebraicità verrebbe ad essere rafforzata in una soluzione a due-stati, servirebbe poco agli abitati della West Bank, ancor meno a quelli di Gaza,  nulla ai profughi e ai loro discendenti e meno di nulla ai palestinesi cittadini di Israele, il cui status oltraggioso di non-ebrei peggiorerebbe ulteriormente. Solo la creazione di uno stato democratico e laico in tutta la Palestina storica, nel quale gli ebrei israeliani ed i palestinesi – tutti, sia quelli che sono attualmente sotto occupazione, che quelli che vivono come cittadini di seconda classe di Israele, ed i profughi del 1948 con i loro discendenti, il cui diritto al ritorno è assolutamente fuor di dubbio – possono vivere come cittadini uguali, può risolvere il conflitto una volta per tutte. 

Da queste due conclusioni ne evince pure una terza. Ad una pace giusta non si giungerà semplicemente implorando o cercando di convincere gli ebrei israeliani a comportarsi in modo giusto e ad abbandonare e smantellare il sistema razzista che li dota di privilegi, nel mentre negano i diritti fondamentali dei palestinesi. Tutti i precedenti storici più vicini a questo conflitto – in particolar modo il Sud Africa – ci ricordano che i gruppi privilegiati non abbandonano la loro prerogative proprio perché è la cosa giusta da fare o perché si comportano come se si sentissero male di fruire di questi privilegi; essi ci rinunciano solo quando non hanno altra possibilità. Questo caso non è diverso. Una pace giusta fondamentalmente non ha bisogno di violenza, al di fuori della pressione che deve  essere applicata per incidere su Israele; questa è la ragione per cui per così tanti popoli di buona volontà sparsi per il mondo, e per così tanti palestinesi stessi, lo sviluppo del movimento BDS (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) è una fonte di speranza di questo tipo. 

Saree Makdisi è professore di letteratura inglese presso l’Università della California, Los Angeles (UCLA) ed è autore di Palestine Inside Out: An Everyday Occupation  [pubblicato in Italia dalla Isbn Edizioni con il titolo “Palestina borderline”]      

(tradotto da mariano mingarelli)