La 'Pax Israeliana' di Kerry ha fallito. E dopo?

Jfjfp – Jewish for Justice for Palestinians
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Proteggere lo stato di Israele farà naufragare ogni iniziativa di pace.

da Mondoweiss
03.07.2013
http://mondoweiss.net/2013/07/kerrys-israeliana-failed.html

 

La ‘Pax Israeliana’ di Kerry ha fallito. E dopo? 

di Jeff Halper 

Come rispondiamo a Kerry? Non sono a conoscenza di qualcuno che abbia familiarità – a tutto campo – con il conflitto israelo-palestinese che veda nell’iniziativa di Kerry nulla di più di un tentativo di imporre ai palestinesi una ‘Pax Israeliana’. Infatti, né Kerry, né i suoi partner israeliani si preoccupano di negarlo. Da parte sua, il principale contributo di Kerry a quest’ultima incarnazione del “processo di pace” a lungo moribondo è un vago pacchetto di “incentivi” di 4 miliardi di dollari – parte di ciò che Amira Hass chiama il “prezzo del silenzio” – che mostra una singolare somiglianza con la “pace economica” che, per anni, hanno cercato di spacciare Netanyahu e Peres.

 

D’altro canto, Kerry fa pressione sui palestinesi semplicemente perché accettino le precondizioni di Israele per i negoziati e la sua versione della soluzione a due-Stati: nessun blocco alla costruzione di colonie, all’espropriazione dei terreni, alla demolizione o all’evacuazione delle case (dal 1967 sono state demolite 28.000 abitazioni ed è tuttora in corso); il riconoscimento di Israele quale Stato “Ebraico”, l’imposizione del Parametro di Clinton a Gerusalemme Est (“ciò che è ebraico è israeliano, ciò che è arabo è palestinese”, eliminando in tal modo del tutto ogni tipo di entità urbana coerente che possa servire come capitale dei palestinesi); conservazione da parte di Israele di almeno sei tra i maggiori “blocchi”, collocati in modo strategico in modo da spezzettare la West Bank in cantoni disconnessi e depauperati, isolando ciò che resta della Gerusalemme Est dal resto della West Bank; controllo militare israeliano a lungo termine o permanente sulla Valle del Giordano e sui confini della Palestina con l’Egitto e la Giordania – beh, la lista continua: controllo israeliano sullo spazio aereo palestinese, oltre che sulla loro sfera elettromagnetica (comunicazioni), ecc, ecc, ecc. 

Nonostante il fatto che la maggioranza degli ebrei israeliani sia a favore di una soluzione a due-Stati di qualche sorta e riservi un punto di vista abbastanza negativo all’iniziativa colonialista, nessuna soluzione che anche solo si avvicini alla rivendicazione palestinese di uno stato vitale, realmente sovrano, territorialmente contiguo, con Gerusalemme Est come capitale, ha la possibilità di essere approvata alla Knesset, anche se fosse confermata da un referendum. E la volontà degli Stati Uniti - del Congresso, in particolare – di costringere Israele ad accettare una soluzione di questo tipo è del tutto assente, come sta a dimostrare la sciatta diplomazia di Kerry. 

Perché, allora, impegnarsi del tutto nell’operazione? Beh, difatti non c’è alcun motivo valido. Gli Stati Uniti, come Israele, hanno sempre minimizzato qualsiasi collegamento tra il conflitto israelo-palestinese e le dinamiche di un Medio Oriente allargato; anzi ritraggono Israele come un prezioso alleato nella guerra al terrorismo, che è la lente attraverso cui le Amministrazioni americane guardano la regione. Di certo non ne soffrirebbero se avesse fine l’interminabile oppressione israeliana sui palestinesi, e, nella misura in cui gli Stati Uniti percepiscono l’isolamento internazionale riguardo il loro sostegno assoluto a Israele, potrebbe perfino venirne un miglioramento della reputazione americana; di conseguenza la pressione di Kerry ( o, meglio, l’esortazione) è volta a dare inizio ai negoziati prima delle riunioni a settembre delle Nazioni Unite e prima che i palestinesi ottengano una qualche altra vittoria simbolica. Ma la propensione di Kerry ad abbandonare il processo qualora “le parti” non cooperino ( come se si stesse parlando di due giocatori di uguale peso e responsabilità) indica che il suo governo è disposto a convivere con un’Occupazione illimitata. 

La titubanza di Israele, al confine con il disinteresse, smentisce anche qualsiasi autentico senso di urgenza. Vero, Netanyahu è interessato a che non nasca alla fine uno stato bi-nazionale tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano, ma crede pure che una combinazione del prezzo del silenzio per le élite palestinesi, l’aiuto umanitario perpetuato dalla comunità internazionale e l’immediata pacificazione (compresa l’auto-pacificazione da parte dell’Autorità Palestinese) sia sufficiente per togliere la questione palestinese dalla sua lista delle priorità. E’ interessante notare che sia Netanyahu che Tzipi Livni, il ministro incaricato dei negoziati, hanno ammesso che il movimento BDS rappresenta una minaccia per Israele - e più di una semplice minaccia economica. Appelli per un boicottaggio economico possono aver avuto inizio per le colonie, afferma la Livni, “ma il problema [dell’EU] è con Israele, che viene visto come uno stato colonialista. Non si fermerà alle colonie, ma si estenderà al resto del paese.” Ma, è pure certo che tale minaccia perde di consistenza alla luce del vivo desiderio degli stati membri dell’UE di acquistare armi israeliane e prodotti ad alta tecnologia. Né vogliono scontrarsi con gli Stati Uniti sulla questione palestinese. 

Quindi, sì, perché non cercare una volta di più di giungere alla “pace” con i palestinesi? Tanto più che il processo mediato dagli americani non mette fondamentalmente in pericolo i principali blocchi di colonie di Israele, la sua sovranità su Gerusalemme Est o il controllo complessivo, di fatto, della West Bank. I palestinesi, calcola Netanyahu, non sanno dove andare. Sul terreno, sono esausti, politicamente e fisicamente a pezzi, e non possono resistere in modo significativo; la loro causa, dal punto di vista politico, perde costantemente terreno in quanto cessa di essere un punto di crisi internazionale e scompare dalla vista – nonostante iniziative ricorrenti come quella di Kerry o votazioni simboliche alle Nazioni Unite. Quindi, se la missione di Kerry ha successo, calcolano i leader israeliani, possiamo o avviare negoziati che porteranno de facto a un apartheid consensuale, il risultato preferito, o trascinarli all’infinito. Di fatto non ha importanza dal momento che entrambi gli scenari lasciano a Israele il controllo e le nostre principali colonie intatte. E se gli sforzi di Kerry falliscono, beh, possiamo dare facilmente la colpa di ciò ai palestinesi e ritornare tranquillamente allo status quo ante. 

Tutto ciò non è semplicemente cinica arte di governo e neppure riguarda in modo esclusivo il caso israelo-palestinese. Va al cuore della politica internazionale, di una realtà fondamentale che noi, che aspiriamo a un mondo veramente migliore, dobbiamo cogliere se vogliamo sviluppare strategie efficaci con cui combattere. La realtà è che i governi non risolvono i conflitti (di certo sulla base dei diritti umani, del diritto internazionale e negli interessi della giustizia); ma li gestiscono. 

L’ho visto con chiarezza In occasione di un recente incontro con funzionari del Tavolo del Medio Oriente di un importante governo europeo. Quel governo è uno dei principali critici di Israele in Europa, una colonna dei diritti umani e, nei fatti, un sostenitore del BDS che ha disinvestito tutte le pensioni dello stato dalla Elbit Sistems, una redditizia società militare israeliana. 

Sì, mi hanno detto, lavoriamo costantemente per porre fine all’Occupazione e realizzare la soluzione a due- Stati, l’unica accettabile per noi. 

Ma cosa, ho chiesto, se voi stessi eravate convinti che la soluzione due-Stati fosse venuta meno? Non vorreste prendere in considerazione un altro approccio, quello di un unico stato democratico, ad esempio, o di uno bi-nazionale? 

No, mai, hanno replicato. Guarda, mi hanno spiegato, è vero che siamo contro l’Occupazione israeliana, ma Israele stesso è per noi un paese amico. Collaboriamo su questioni NATO e incoraggiamo i nostri uomini d’affari a commerciare con Israele. Non faremmo mai nulla per danneggiarlo. Quindi non possiamo andare da nessuna parte al di là di una soluzione a due-Stati. 

Ma se voi eravate convinti che tale soluzione è venuta meno, ho insistito, che cosa ne conseguirebbe allora? In tal caso, mi hanno risposto, aumenteremmo semplicemente i nostri aiuti ai palestinesi. Non potremmo mai accettare una qualsiasi altra soluzione, oltre a quella dei due-Stati, che compromettesse l’integrità e la sicurezza di Israele. 

In altre parole, questo risoluto difensore dei diritti umani nella comunità internazionale potrebbe convivere benissimo con l’ingiustizia e l’apartheid qualora non risultasse imminente alcuna soluzione al conflitto israelo-palestinese. Tuttavia, questo supporto strutturale a Israele comporta una condizione: Israele deve tenere il coperchio. Controllo significa non tenere essenzialmente conto di situazioni che non inficiano il sistema internazionale o gli interessi fondamentali dei suoi blocchi principali, concentrandosi invece sull’estinzione immediata dei focolai perturbatori. Anche le guerre rappresentano più una gestione del conflitto – garantire le risorse e le rotte commerciali, tenendo a bada gli elementi di disturbo – che misure necessarie a volte per la effettiva soluzione di un problema. Il messaggio a Israele del governo che ho visitato e degli altri è questo: continueremo a procrastinare de facto il nostro sostegno, a condizione che la vostra sopraffazione nei confronti dei palestinesi resti “sotto un radar comunemente accettato”, che l’Occupazione non divenga né un punto di crisi (come fu durante l’Intifada egli attacchi su Gaza) tale da esigere la nostra attenzione o generare imbarazzo al nostro sostegno ufficiale dei diritti umani. Questo, Israele è riuscito a farlo in gran parte. Il fatto che il confitto continui, tuttavia, a deteriorarsi, soprattutto perché le gente di tutto il mondo si rifiuta di farlo scomparire, è sufficiente a condurre Kerry nella regione. Però non basta a creare pressioni significative nei confronti di Israele perché ponga effettivamente fine alla sua Occupazione. 

Se questo è il caso, allora che ci stiamo a fare noi attivisti di base? In primo luogo, dobbiamo renderci conto che abbiamo contratto un brutto matrimonio. I governi rivendicano il diritto esclusivo di gestire i nostri affari internazionali, solo loro possono accrescere gli eserciti, negoziare e firmare trattati. Per questo motivo ci aspettiamo che loro assumano la leadership e risolvano i problemi del mondo. Ma non lo faranno, non andranno oltre la gestione dei conflitti dettati dai propri interessi collettivi. Solo quando le pressioni della gente dal basso li costringeranno ad agire – anzi, solo quando la resistenza della gente affretterà il collasso dello status quo che li costringerà ad affrontare veramente le rimostranze fondamentali – i governi saranno davvero la cosa giusta. 

La consapevolezza che abbiamo bisogno di governi, anche se solo per definire con precisione le soluzioni che noi stessi facciamo nostre, fornisce indicazioni per le nostre strategie per il cambiamento. Noi, il popolo, dobbiamo essere quelli che formulano i profili delle giuste soluzioni per i conflitti; i governi non lo faranno, essi cercheranno semplicemente la via più facile. E noi, allora, dobbiamo avanzare strategie operative per imporre loro le nostre soluzioni, o almeno i principi alla base delle giuste soluzioni. Infine, dobbiamo seguire da vicino il modo in cui conducono i negoziati, insistendo sul fatto che siano trasparenti e che affrontino davvero i problemi nel modo giusto. Dobbiamo far sì che siano onesti. 

Per ciò che riguarda la realizzazione di una pace giusta tra palestinesi e israeliani – qualcosa che abbattesse le barriere che ci dividono e desse, in modo commisurabile, un contributo alla capacità della gente di affrontare la necessità di un cambiamento in tutta la nostra regione – noi, in quanto società civile, abbiamo ancora molta strada da fare. Ciò che manca è la razionale progressione del coinvolgimento della società civile, che formula una soluzione accettabile, la persegue in modo efficace e, nel contempo, controlla gli sviluppi politici. Per risolvere in modo giusto il conflitto israelo-palestinese, abbiamo esercitato di fatto una pressione significativa sui governi tramite la campagna BDS e di altri tipi, ma non abbiamo formulato un’alternativa alla soluzione a due stati che Israele e Stati Uniti hanno sostanzialmente rimosso. Questo è l’elemento più urgente della nostra agenda. Senza un finale di partita formulato dai palestinesi insieme alle loro controparti israeliane non ci possiamo inserire con successo nel processo politico e neppure possiamo monitorare di fatto gli sviluppi politici di un’iniziativa qual è quella di Kerry. 

Dobbiamo, allora, definire per lo meno i principi in base ai quali valutare se iniziative politiche del tipo di quella di Kerry sono giuste e oneste. In altra sede ho presentato questi cinque principi, potrebbe essere però utile dare loro un’occhiata in questo contesto, se non altro per sollecitare un’indispensabile discussione. 

  1. Una pace giusta e il processo che porta a essa devono essere conformi ai diritti umani, al diritto internazionale e alle Risoluzioni delle Nazioni Unite.
  2. Indipendentemente dal fatto che ci debba essere o meno uno stato di Israele, ora in Palestina-Israele risiedono due popoli, e una pace giusta deve essere basata su questa realtà bi-nazionale.
  3. Una pace giusta comporta l’accettazione del diritto al ritorno dei profughi palestinesi.
  4. Una pace giusta deve essere economicamente praticabile, con tutti gli abitanti del paese che godono di pari accesso alle risorse e alle istituzioni economiche del paese.
  5. Una pace giusta deve essere di portata regionale – di per sé Israele-Palestina è una compagine troppo piccola per affrontare tutte le questioni in gioco nel conflitto – e deve affrontare i problemi di sicurezza di tutta la regione. 

Se è vero che i governi gestiscono semplicemente i conflitti e pongono i loro propri interessi al di sopra di quelli dei diritti umani e del diritto internazionale, è compito nostro quello di controllare ogni processo che intraprendono – per far sì che resti onesto. Formulare una serie di principi tramite i quali possiamo verificare se essi affrontano realmente i problemi a portata di mano o cercano di imporre una “soluzione” ingiusta, ma praticabile, è di fondamentale importanza – non solo per Israele-Palestina , ma per quanto riguarda uno qualsiasi degli innumerevoli conflitti nel mondo. 

Jeff Halper – è il direttore dell’Israeli Committee Against House Demolitions (ICAHD) 

(tradotto da mariano mingarelli)