Gli accordi di Oslo sono falliti: e adesso?

AIC – Alternative Information Center
03.10.2013
http://www.alternativenews.org/english/index.php/politics/opinions/7106-oslo-failed-what-now

 Gli Accordi di Oslo sono falliti: e adesso?

Gli Accordi di Oslo sono falliti, e adesso? I palestinesi dovrebbero approfittare della realtà internazionale in cambiamento per rendere i negoziati più incisivi, mentre il movimento di solidarietà internazionale dovrebbe concentrarsi di meno sui sintomi dell’occupazione quanto sull’elaborazione di strategie politiche. Nassar Ibrahim spiega.

di Nassar Ibrahim

La prospettiva di una ripresa dei negoziati di pace con Israele ha lasciato del tutto indifferente la maggioranza dell’opinione pubblica palestinese e in alcuni casi gli stessi incaricati dei negoziati. L’attuale pessimismo è dovuto in gran parte alla situazione creatasi in seguito agli Accordi di Oslo. 

                  

 

La principale fonte di preoccupazione è il fatto che tutte le parti coinvolte nei negoziati - Israele, Palestina e Stati Uniti - hanno un approccio ai nuovi colloqui di pace che è esattamente lo stesso di vent’anni fa, basato sugli stessi principi e fondamenta e nelle stesse condizioni di iniquità che condannarono i trattati di Oslo al fallimento. Tra gli altri possiamo menzionare:

  • Mancanza di unità tra i partiti politici palestinesi che ha provocato la mancanza di un movimento di resistenza coeso e strategico e un complessivo indebolimento del movimento nazionale palestinese;
  • Una più ampia complicità araba con l’agenda politica statunitense nell’area;
  • Il controllo totale americano sul processo di pace unito alla totale mancanza di pressione su Israele da parte della comunità internazionale affinché rispetti il diritto internazionale e le risoluzioni ONU;
  • Un generale disinteresse israeliano nel portare avanti il processo di pace e la decisione invece di trarre profitto dai negoziati imponendo la sua politica del fatto compiuto.

Queste circostanze hanno portato ad una situazione che ha consolidato il potere israeliano e statunitense nella regione dando priorità ai loro interessi. La debole posizione dei palestinesi, come già durante gli Accordi di Oslo, ha spostato l’ago della bilancia del potere a favore degli israeliani e ha permesso alla forza occupante di scegliere in che termini prendere parte al processo di pace.

I numerosi progetti di sviluppo avviati durante i precedenti colloqui, non solo hanno indebolito la posizione politica dei palestinesi, ma hanno anche causato una situazione di dipendenza economica dagli aiuti internazionali e dall’economia israeliana. L’alto livello di "condizionalità" degli aiuti (essenzialmente garantendo aiuti allo sviluppo economico in cambio di concessioni politiche da parte dei palestinesi) hanno anche portato alla promozione e diffusione della normalizzazione al livello sociopolitico, organizzativo e istituzionale.

Una delle molte contraddizioni degli attuali colloqui, seguendo le orme di quelli di Oslo, è che, mentre l’approccio e gli equilibri di potere sono praticamente gli stessi di allora, la situazione regionale e globale al di fuori del contesto immediato del processo di pace israelo-palestinese è cambiata. Gli Stati Uniti, per esempio, non possiedono più il monopolio della politica internazionale e dell’economia globale, e le potenze emergenti dei Paesi del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) e del Sud America sono sempre più nella posizione di poter sfidare apertamente le politiche statunitensi.  

Alla luce della situazione in Siria e del fallimento dei movimenti dell’Islam politico appoggiati dagli Stati Uniti in Egitto, Tunisia e Libia, risulta sempre più chiaro che il progetto coloniale americano di imporre la “democrazia” nel Medio Oriente sia ormai messo in seria difficoltà, così come il fallimento nel tentativo di coinvolgere altri Paesi in un intervento in Siria è un altro chiaro sintomo di una progressiva perdita di controllo.

Se da un lato la Primavera Araba ha portato alla fine di numerosi regimi nella regione, la debolezza dell’opposizione e la nascita troppo recente di alternative nazionali per la leadership hanno portato alla diffusione della violenza e dell’estremismo. La tendenza americana a appoggiare le forze maggiormente reazionarie, come i Fratelli Musulmani e i gruppi estremisti in Siria, unito all’incondizionato e duraturo supporto a Israele, sono percepiti con sempre maggior scetticismo e rabbia anche da nazioni arabe che precedentemente si accontentavano di stare in silenzio. L’apparente mancanza di un'opposizione capace di riscuotere consensi e il rifiuto dell’Islam politico, al contrario degli interessi americani, sta portando alla rinascita del panarabismo. 

Alla luce di questi cambiamenti a livello globale e regionale, la Palestina ha l’opportunità di sfruttare questi mutamenti a proprio vantaggio, creando delle strategie alternative capaci di sovvertire le dinamiche di potere al tavolo dei negoziati. Un passaggio fondamentale nella creazione di un processo di pace reale è il riconoscimento del diritto internazionale e delle risoluzioni ONU come base a cui fare riferimento durante le discussioni. Se questo requisito fondamentale non viene garantito, i negoziatori palestinesi devono capire la necessità di abbandonare i colloqui, poiché ogni processo che non si basa sulla legge porterà solo all’imposizione da parte di Israele della politica del fatto compiuto e ulteriori concessioni richieste ai palestinesi.

Durante i colloqui, i palestinesi possono compiere alcune scelte concrete per assicurarsi un campo da gioco maggiormente equo. Per prima cosa ricominciandoa coinvolgere i palestinesi stessi, sia nella Palestina storica che i rifugiati della diaspora, nella partecipazione attiva nell’elaborazione di strategie di resistenza, in secondo luogo rifiutando qualsiasi aiuto e donazione le cui condizioni sono delle concessioni e in conclusione monitorando meglio e regolando il settore privato in Palestina, in modo da minimizzare la capacità di influenza della Banca Mondiale sull’economia locale.

Affinché queste strategie abbiano successo, devono essere il frutto di uno sforzo collettivo nazionale. È indispensabile che Fatah e Hamas superino le loro divisioni politiche che sono state la causa della frantumazione della resistenza contro l’occupazione e concentrino le loro energie nella protezione degli interessi palestinesi e non solo quelli dei rispettivi partiti.

Un’altro aspetto centrale nella costruzione dell’unità è il cambiamento di atteggiamento nei confronti della questione palestinese, che non deve essere considerata come qualcosa di indipendente dal più ampio contesto mediorientale. Ogni sforzo per la pace e la libertà in Palestina è inevitabilmente legato alle lotte contro l’occupazione israeliana delle Alture del Golan e la più vasta lotta contro l’intervenzionismo e l’imperialismo occidentale nel mondo arabo. Non può esserci una pace duratura e esaustiva se non coinvolge tutta la regione. La crescente influenza russa e cinese ha creato il potenziale per l’avvio di sforzi diplomatici di ampie proporzioni in cui gli Stati Uniti non hanno più il monopolio dell’agenda politica nel Medio Oriente.

Oltre a questi sforzi nazionali e regionali, anche i movimenti di solidarietà internazionali possono giocare un ruolo molto importante. L’attivismo può dare infatti un grosso contributo alla lotta, ma è necessario un cambio d’atteggiamento. Di primaria importanza è l’assoluto rifiuto all’organizzazione o partecipazione a attività che favoriscono la normalizzazione.

Un errore diffuso tra gli attivisti internazionali è la frequente enfasi data a delle attività volte allo sviluppo socio-economico invece di contribuire a delle strategie politiche di più ampio respiro. A causa delle controversie associate all’allineamento con le attività della resistenza palestinese, molti gruppi e associazioni decidono di concentrarsi su alcuni aspetti particolari dell’occupazione, come la demolizione delle case, invece di contrastare e affrontare le più ampie implicazioni politiche di Israele come potenza occupante. Questo approccio limitato è sì utile nel richiamare l’attenzione internazionale su certi aspetti dell’occupazione, ma è un strategia incapace di modificare il piano espansionista israeliano. Per una risoluzione duratura del problema, ci si deve concentrare sulle radici delle cause dell’occupazione e non solo alleviarne i sintomi.    

Le organizzazioni internazionali dovrebbero anche prendere atto che Israele è l’unico responsabile delle proprie azioni, e di conseguenza esercitare le dovute pressioni. È fondamentale che vengano rifiutate tutte le attività che prevedono una colpevolizzazione della vittima, come incoraggiando le concessioni palestinesi, ponendo condizioni in cambio della solidarietà e promuovendo la normalizzazione tra le persone prima che un accordo equo sia stato raggiunto. Affinché il supporto internazionale faccia realmente la differenza è importante che sia basato su un sincero appoggio al sumud, o alla risoluta determinazione del popolo palestinese e alla sua resistenza. Il popolo palestinese ha già molti ostacoli da superare senza dover stare a preoccuparsi se la sua lotta è ritenuta gradevole dal pubblico internazionale. 

(tradotto a cura di AIC Italia/Palestina Rossa)