L'illusione di Oslo: la fine della soluzione dei due stati

Convegni di studio ISM - Italia su “Gli accordi di Oslo – 20 anni dopo”      

Roma 3 ottobre, Milano 4 ottobre, Torino 5 ottobre 20131

Relazione di Jamil Hilal* a Roma e Milano

L’illusione di Oslo: la fine della soluzione due-Stati

Bozza (inedita)

Nel 2006 ho pubblicato in inglese un libro intitolato “La fine della soluzione due-Stati”. Se oggi ne dovessi pubblicare o scrivere un altro, lo chiamerei “Il mito tenace della soluzione due-Stati”.

L’accordo di Oslo è stato, per le sue conseguenze, un disastro per i palestinesi (una nuova Nakba), prodotto di una leadership palestinese demoralizzata e corrotta (che sfortunatamente ci crede ancora 1). Gli Accordi di Oslo hanno alimentato, a livello internazionale e regionale, l'illusione che il conflitto israelo-palestinese sia un conflitto relativo ai confini, che può essere risolto dagli israeliani e dai palestinesi e che sia in corso un “processo di pace”. Oslo ha fornito alla classe politica israeliana una copertura per continuare la sua occupazione coloniale militare di insediamento, cioè per continuare le sue politiche.

                  

 L’impatto degli Accordi di Oslo può essere discusso da tre punti di vista: 

  1. Israele ha continuato le stesse politiche coloniali adottate in passato con il vantaggio aggiuntivo di trasferire il peso finanziario dell'occupazione ad altri (Europa, gli Stati del Golfo Arabo e gli Stati Uniti) e la sicurezza di Israele all'Autorità palestinese (attraverso la cooperazione per la sicurezza, etc.).
  2. L’indebolimento del movimento politico palestinese (il movimento palestinese è molto più debole ora che prima di Oslo).
  3. L’inizio di una serie di travisamenti dei fatti, revisioni e idee sbagliate riguardo alla storia, alla geografia e alla demografia palestinesi, e ai diritti collettivi palestinesi. 

Spiegherò brevemente cosa implica ognuno di questi punti: 

       A. Oslo ha facilitato l’accelerazione e l’espansione delle politiche coloniali israeliane 

Gli Accordi di Oslo non hanno indicato chiaramente la fine dell’occupazione militare della Cisgiordania (inclusa Gerusalemme Est) e della Striscia di Gaza, né hanno preso in considerazione il diritto al ritorno dei palestinesi. L’occupazione militare è proseguita, gli insediamenti coloniali hanno continuato ad espandersi (il numero dei coloni è cresciuto da 240 mila nel 1990 fino a una stima di 656 mila nel 2012, con un aumento del 182% del territorio occupato dagli insediamenti 2). I rifugiati palestinesi hanno continuato a vedersi negato il diritto al ritorno e la minoranza palestinese autoctona residente in Israele a vedersi negati i diritti di minoranza nazionale e alla piena cittadinanza, rimanendo soggetti a forme insidiose di discriminazione 3). 

È stato imposto un sistema di apartheid, adottando tutta una serie di politiche e misure, tra le quali segnaliamo: 

  •  il controllo dei punti di entrata e di uscita dalla Cisgiordania e da Gaza (secondo un programma complesso e mutevole);
  •  il controllo del movimento delle persone e delle merci; la costruzione di strade di collegamento riservate o by-pass roads (che uniscono gli insediamenti in Cisgiordania con le città israeliane, percorribili solo dagli israeliani);
  •  il controllo delle risorse naturali (la maggior parte della terra e delle principali sorgenti d’acqua);
  •  il mantenimento dei checkpoint militari temporanei e permanenti;
  •  l'imposizione ai palestinesi di un sistema di permessi per accedere a Gerusalemme Est e a Gaza e per entrare nelle città e nei villaggi occupati nel 1948;
  •  il controllo sulle attività economiche palestinesi in Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme Est;
  •  la frammentazione della Cisgiordania in tre riserve principali (bantustan) e la limitazione del controllo esercitato dall’Autorità palestinese sui centri urbani popolati (lasciando a Israele il controllo totale di oltre il 60% del territorio della Cisgiordania);
  •  la costruzione del muro di segregazione;
  •  l'accesso limitato alla Valle del Giordano (dove si trova la maggior parte dei terreni agricoli della Cisgiordania);
  •  le restrizioni al possesso di terra e di proprietà per i palestinesi all'interno la linea verde (Israele);
  • l'imposizione di un duro assedio alla Striscia di Gaza. 

In Cisgiordania non solo il paesaggio è stato così alterato da renderlo irriconoscibile (rispetto a come era prima del 1967) dagli insediamenti israeliani che assediano le città e i villaggi palestinesi, ma anche la demografia è cambiata in modo significativo; nel 2012 una persona su quattro in Cisgiordania è un colono israeliano (in Israele un abitante su cinque è palestinese). I coloni sono in Cisgiordania contro la volontà dei palestinesi e occupano territori conquistati con la forza, mentre la minoranza palestinese in Israele è lì come gruppo autoctono. 

La situazione coloniale imposta ai palestinesi, oltre a comportare la privazione dei loro diritti collettivi, sottopone a notevoli rischi la vita nelle comunità palestinesi; e questo vale sia per i palestinesi dei campi (in Siria, Libano, Giordania, Iraq, Gaza e Cisgiordania), ma anche per quelli al di fuori dei campi profughi, sottoposti a vari gradi di discriminazione e di repressione (arresti arbitrari da parte delle autorità di sicurezza israeliane, demolizioni di abitazioni, sfratti violenti, aggressioni - anche da parte dei coloni in Cisgiordania - assedio, guerra e altre azioni del genere 4). 

       B. Smantellamento del movimento politico palestinese 

È oggi evidente che il processo di Oslo ha sensibilmente indebolito il movimento palestinese, lasciandolo diviso, senza leader, senza istituzioni nazionali e senza una chiara strategia. Oslo fu sottoscritto quando l'OLP si trovava nel momento di maggiore debolezza, avendo perso il suo principale alleato internazionale con crollo dell’Unione Sovietica e con il mondo arabo in agitazione a causa della guerra in Iraq del 1990, ed era quindi politicamente e finanziariamente isolata. A quell'epoca Israele accoglieva un gran numero di immigrati russi altamente qualificati, e soprattutto, il suo principale alleato internazionale era ora la superpotenza internazionale dominante, con la quale il più importante paese arabo (l’Egitto) aveva appena (settembre 1978) firmato un trattato di pace. 

Nell'ambito degli accordi di Oslo la leadership dell'OLP aveva riconosciuto a Israele il diritto di esistere non in cambio del riconoscimento ai palestinesi del diritto a uno Stato né del diritto dei profughi a tornare nella loro terra di origine, ma in cambio del riconoscimento dell'OLP quale rappresentante del popolo palestinese (per poi chiedere una modifica nella Carta dell'OLP). I negoziati iniziati con Oslo non avevano un obiettivo specifico e furono portati avanti (e continuano a esserlo) in un quadro di potere fortemente orientato contro il negoziatore palestinese e internazionalmente sbilanciato a favore di Israele, dato che l’intero processo fu messo sotto la gestione effettiva degli Stati Uniti, importante alleato strategico di Israele. I leader palestinesi che firmarono gli Accordi di Oslo pensavano erroneamente che questi avrebbero condotto alla creazione di uno Stato palestinese indipendente. 

Fu subito chiaro (specialmente durante l'incontro tra Arafat, Barak e Clinton svoltosi nel luglio del 2000 a Camp David) che Israele non è disposta a permettere la creazione di uno Stato indipendente in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza con Gerusalemme come capitale, né ha alcuna intenzione di ammettere le sue responsabilità per quanto riguarda il problema dei profughi. La seconda intifada non ha avuto successo perché è mancata una strategia palestinese unificata e chiara, e ha quindi contribuito all’indebolimento del movimento palestinese e favorito l’ascesa di Hamas e poi la sua vittoria nelle elezioni del 2006 per il Consiglio legislativo palestinese, la lotta tra Hamas e Fatah, e l’imposizione del suo controllo nella Striscia di Gaza nel giugno 2007, con la creazione di due autorità palestinesi, entrambe sotto occupazione militare, assediate e dipendenti da aiuti e donazioni e quindi molto vulnerabili da interferenze e pressioni esterne. 

Le élites palestinesi che hanno scommesso sulla trasformazione dell’Autorità Palestinese da autorità di autogoverno (con poteri municipali limitati) in uno Stato sovrano e indipendente, si sono dati da fare per creare gli ingranaggi e la simbologia di uno Stato sotto occupazione militare (ministri, forze di sicurezza, burocrazie strutturate e gerarchiche e tutta quella scala di gerarchie, di cui dispongono gli Stati indipendenti), che sii è però rivelato un esercizio di autoinganno. 

L'eccessiva attenzione dedicata alla costruzione di uno “Stato” istituzionale ha permesso di marginalizzare l'OLP, trasformandola in un strumento sottomesso all’Autorità palestinese, invece di intraprendere i processi contrari con l'adozione di una strategia di democraticizzazione e di ristrutturazione dell'OLP, al fine di farne un rappresentante dinamico delle comunità palestinesi dentro e fuori la Palestina mandataria, che diriga e coordini la loro lotta per la libertà e per l’autodeterminazione. Occuparsi troppo della costruzione di uno Stato sotto occupazione ha cancellato la consapevolezza della necessità di una lotta per i diritti. 

In breve, i palestinesi si trovano ad affrontare una situazione coloniale, una diaspora forzata e un sistema di apartheid, senza una guida, divisi, senza uno Stato, senza istituzioni nazionali rappresentative e senza una strategia unificata. Tutto ciò senza negare l'esistenza di un'identità palestinese forte e dinamica, costruita su una lunga e significativa narrazione storica di resistenza e di lotta per la libertà e l'uguaglianza sin dall'inizio del secolo scorso, alimentata poi dalla Nakba, l’esperienza dello spossessamento, della discriminazione, della repressione, della pulizia etnica e delle diverse e ricche forme di resistenza praticata dalle varie comunità palestinesi. 

C’è una forte consapevolezza, in particolar modo nella generazione palestinese più giovane, della necessità di ricostruire il movimento palestinese come un movimento di liberazione nazionale che promuova e inviti alla partecipazione attiva tutte le componenti del popolo palestinese (nei territori occupati nel 1948 [Israele], a Gaza, in Cisgiordania, Giordania, Libano, Siria e altrove) con una strategia coordinata di liberazione e di emancipazione. Dalla base di queste comunità emerge con forza la richiesta di ricostruire un movimento di questo tipo, accanto a una resistenza popolare attiva e a movimenti durevoli nella maggior parte di queste comunità ovunque si trovino, tra i quali, ad esempio, il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele, la campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele, i movimenti giovanili che rivendicano la ricostruzione di istituzioni nazionali palestinesi democratiche e affidabili, le manifestazioni contro il muro di segregazione, contro gli insediamenti e contro lo possessamento e lo sradicamento dei beduini del Naqeb (Negev), promuovendo il riconoscimento dei diritti dei palestinesi in Israele come minoranza nazionale autoctona, e anche le attività di molte associazioni palestinesi che discutono a fondo e si mobilitano per l’attuazione del diritto al ritorno e si oppongono a qualunque concessione riguardante il diritto al ritorno come diritto individuale e collettivo. 

      C.  Oslo ha promosso la strumentalizzazione della storia, della geografia e della demografia palestinesi e il marketing di miti e delusioni 

La letteratura politica prevalente sulla questione palestinese è tutto un proliferare di saccheggie travisamenti della storia, della geografia, della demografia palestinesi e del modo in cui viene definita la condizione palestinese. Molti di questi travisamenti sono trattati come fatti dalle organizzazioni internazionali (comprese quelle delle Nazioni Unite), dai leader politici, dai mass media internazionali (inclusi gran parte dei media arabi ufficiali) e alcuni di questi sono diventati normali nel discorso di alcune istituzioni, ong, leader e mass media palestinesi, ansiosi di allinearsi con quelli che sembrano essere i termini degli accordi di Oslo. Anche se gli equivoci sulla questione palestinese non cominciano con Oslo, gli accordi hanno chiaramente promosso e alimentato questi travisamenti dei fatti, aggiungendo ulteriori distorsioni. Il più ovvio tra questi equivoci può essere spiegato come segue: 

     1. Riduzione della Palestina alla Cisgiordania e a Gaza 

Nel discorso internazionale si pensa comunemente che la Palestina non sia nulla di più dellaCisgiordania e della Striscia di Gaza, cioè del 22% della Palestina sotto il mandato britannico. Nel 1948 le forze sioniste hanno occupato il 78% della Palestina e vi hanno dichiarato la nascita di Israele. Nel giugno 1967 quello che rimaneva della Palestina (la Cisgiordania e la Striscia di Gaza) è stato occupato da Israele ed è ora conosciuto come Territori Palestinesi Occupati (senza contare l’anno 1967), distorcendo così la geografia della Palestina e riducendola a un frammento della sua effettiva dimensione. L’Autorità Palestinese, le agenzie internazionali, le ong e i mass media hanno adottato questa terminologia. Israele considera la Cisgiordania, nel migliore dei casi, un territorio conteso, ma in realtà lo tratta come proprio.

                   2 . Sfrattare i palestinesi dalla storia 

Anche la storia palestinese, nella maggioranza dei discorsi internazionali, inizia nel 1967 (con l’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza). La questione palestinese viene così ridotta a quella di una occupazione militare di queste due aree e null’altro, e la fine dell’occupazione israeliana di questi due territori (o della maggior parte di essi) viene considerata sufficiente a risolvere il conflitto israelo-palestinese. Questa distorsione della realtà cancella il problema dell’ingiustizia storica inflitta al popolo palestinese, rimovendo inoltre la Palestina dalla storia, prima dell'entrata di Israele nella storia e nella geografia e privando i palestinesi della loro narrazione storica (e della loro lunga resistenza al colonialismo degli insediamenti e della loro lotta per l’autodeterminazione). I palestinesi non sono più presenti nella prima metà del XX secolo, che hanno passato a combattere per l’autodeterminazione contro l’occupazione militare britannica e la colonizzazione sionista della loro terra, e vengono rimossi dalla storia precedente, comprese le loro ribellioni per una maggiore autonomia dal governo ottomano 5). 

                  3. I Palestinesi vengono definiti come coloro che vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza 

Così come si considera la Palestina limitata alla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza, i palestinesi vengono ridotti agli abitanti di questi due territori, ossia a quelli che hanno carte d'identità emesse dall’Autorità Palestinese (che devono essere convalidate da Israele). Questo esclude quasi due terzi dei palestinesi che si trovano in Israele, Giordania, Libano e Siria, quelli che risiedono altrove, che vivono dentro o fuori dei campi profughi, accantonando così il problema del diritto al ritorno dei palestinesi (e dei loro discendenti), cacciati dalle loro case in Palestina nel 1948. 

                 4. Oslo ha contribuito a propagare una serie di miti e di illusioni, tra cui:
la soluzione dei due Stati è sostenibile; costruire istituzioni statali e una economia sostenibile sotto occupazione è fattibile; scommettere su una strategia binaria di negoziati bilaterali o di una mitica concezione elitaria di “resistenza”; ma anche l’illusione che gli Stati Uniti promuoveranno gli interessi
palestinesi o che faranno pressioni su Israele affinché accetti come vicino uno Stato palestinese in grado di sostenersi da solo. 

Dopo 20 anni di negoziati bilaterali ci sono ancora palestinesi, israeliani, europei e persone in altri luoghi, che credono che la soluzione due-Stati sia ancora possibile e fattibile 6). Pensano ancora che i negoziati bilaterali siano l’unica strategia, dimostrandosi ciechi davanti al fatto che la Nakba palestinese continua, mentre Israele accelera il saccheggio di ciò che ha lasciato della terra palestinese in Cisgiordania, trasformando la Striscia di Gaza in un campo di concentramento, mentre le Nazioni Unite affermano che la Striscia di Gaza non sarà in grado, nei prossimi anni, di provvedere a se stessa, vista l'altissima densità di popolazione, le sue risorse molto limitate e le restrizioni imposte agli abitanti palestinesi 7). La leadership israeliana continua, con o senza negoziati, la sua politica di massima colonizzazione della terra con il minor numero possibile di palestinesi, al fine di garantire la “purezza” di Israele come Stato ebraico 8). 

Supporre che l'economia palestinese funzioni 9) e che uno sviluppo sostenibile sia realizzabile in una condizione coloniale di insediamento altro non è che un'irresponsabile mistificazione del possibile. 20 anni di Accordi di Oslo sono sufficienti a dimostrare l’impraticabilità di qualsiasi tipo di sviluppo sostenibile (diverso da una crescita occasionale risultante da aiuti esterni e da donazioni) sotto una occupazione coloniale militare di insediamento che controlla le risorse naturali (terra e acqua comprese), l'attraversamento dei confini (e il commercio), i movimenti interni (di beni e di persone) tra le aree della Cisgiordania (inclusa Gerusalemme Est) e tra Gaza e la Cisgiordania, con gli ostacoli creati dal muro di separazione, dalle strade di collegamento e dall’impatto di arresti arbitrari e di detenzioni senza processo. 

L’Autorità Palestinese non è altro che una semi-entità politica vulnerabile (una “Autorità senza autorità”, come ha detto il suo stesso presidente) che dipende dagli aiuti stranieri, dai trasferimenti e dalle decisioni di Israele sulle tasse che incassa al suo posto. In effetti la creazione dell’Autorità Palestinese ha contribuito a questa lunga occupazione (rendendola la “più economica” della storia, per citare ancora una volta Mahmoud Abbas). Ma l’impatto più dannoso di Oslo e della costituzione dell'Autorità Palestinese è stata la marginalizzazione dell'OLP, dell'istituzione nazionale che rappresenta tutti i palestinesi. La stessa cosa vale per il mito diffuso negli ultimi anni dall’Autorità Palestinese (con l'appoggio europeo) che la costruzione di istituzioni di tipo statuale efficienti e trasparenti, faciliterà, nonostante l’occupazione, la costituzione di uno Stato palestinese. L’Autorità Palestinese ha ricevuto valutazioni alte (dalla Banca mondiale, dal Fondo monetario internazionale e dall'Unione Europea) sulle sue istituzioni molto efficienti e trasparenti, che la qualificano per una statualità, mentre l’occupazione continua e di fatto il numero di coloni in Cisgiordania è aumentato. Non sono serviti neanche il riconoscimento come Stato membro in qualità di osservatore presso le Nazioni Unite (con il voto contrario degli Usa e naturalmente di Israele). 

L’assenza di una strategia globale rende inutili queste misure. Che cosa dovrebbero fare i palestinesi? 

Primo, è imperativo che i palestinesi riprendano possesso della loro narrazione storica e sfatino tutti i travisamenti dei fatti, dei miti e delle superstizioni alimentate da Oslo. 

Secondo, i palestinesi devono ricostruire e democratizzare le loro istituzioni rappresentative nazionali per rifondare un movimento di liberazione nazionale con una strategia unificata che metta insieme l’aspirazione delle tre maggiori componenti del popolo palestinese: 

                   1. i palestinesi che vivono in Israele, nella loro battaglia per diritti uguali ai cittadini israeliani ebrei e per essere riconosciuti come minoranza nazionale con i suoi diritti; 

                   2. i palestinesi residenti in Cisgiordania e a Gaza, nella loro lotta per porre termine all’occupazione militare e coloniale di insediamento, alla repressione legata alla sicurezza, al sistema di apartheid e all’assedio. Di qui la necessità di sostenere su scala internazionale il movimento globale per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) contro Israele per costringerla al rispetto del diritto internazionale e dei diritti dei palestinesi; 

                  3. i palestinesi delle diaspore (shatat) nella loro lotta per la realizzazione del loro diritto a tornare nella loro patria e per acquisire i diritti civili nei paesi dove sono rifugiati, e per l'eliminazione dei controlli di sicurezza sui campi profughi. 

La strategia unificante è la battaglia per l'autodeterminazione, la libertà e l'uguaglianza. 

Sul lungo termine e in prospettiva storica: non ci può essere una soluzione duratura per la questione palestinese senza la restituzione della giustizia ai palestinesi. Ciò comporta: la fine del sistema di apartheid imposto ai palestinesi e il risarcimento per la storica ingiustizia che è stata loro inflitta e che non è ancora finita. Uno Stato unico che include palestinesi ed ebrei israeliani esiste già. Ma è uno Stato coloniale di insediamento che attua una discriminazione razzista nei confronti dei palestinesi. Tutto questo deve finire per consentire ai palestinesi (a tutti i palestinesi, compresi quelli che devono esercitare il loro diritto al ritorno nella Palestina storica) di raggiungere un compromesso storico che comporti la condivisione della Palestina con gli ebrei israeliani, una volta che questi rinuncino al sionismo. 16 Settembre 2013 

* Jamil Hilal è un sociologo palestinese che vive a Ramallah, autore di numerose pubblicazioni sulla società e sulla politica palestinesi. Fra i suoi libri, in arabo, La strategia economica di Israele in Medio Oriente (1995), Il sistema politico palestinese dopo Oslo: uno studio analitico e critico (1998); La società palestinese e le problematiche della democrazia (1999). In italiano, Bollati Boringhieri ha pubblicato Parlare con il nemico. Narrazioni palestinesi e israeliane a confronto, a cura di Maria Nadotti, un saggio che Hilal ha coordinato e che mette a confronto cinque studiosi israeliani (tra i quali Ilan Pappé) e cinque studiosi palestinesi "nello sforzo di riscrivere dal basso la storia della Palestina fuori dagli schemi nazionalistici di entrambe le parti". Nel 2007, per Jaca Book, sempre a cura di Jamil Hilal, è comparsa la raccolta di 11 saggi Palestina quale futuro? La fine della soluzione dei due Stati, un libro che inquadra la situazione del conflitto israelo-palestinese nella più ampia prospettiva dello scenario mediorientale e internazionale. 

Per altri interventi di Jamil Hilal vedi il dossier all'indirizzo www.ism-italia.org/?p=3662 

Articoli in italiano 

Domande sul dopo Gaza, agosto 2005
Palestina Dal collasso di Oslo alla speranza dello stato unico, Il Manifesto 19 luglio 2007 

Articoli in inglese 

Le conclusioni in inglese di un saggio in arabo sulla sinistra palestinese 

RLS PAL – Hilal_Palestinian Left 

Note: 

1) Ahmad Qura’a, a capo dei negoziati di Oslo nel 1993, pensa (in un'intervista con la Voce di Israele) che l’accordo di Oslo non è stato un errore, ma un buon accordo per i 5 anni del periodo interinale e ha respinto l’idea che l’accordo sia morto (cfr. l'agenzia stampa Ma’an News Agency, 13 settembre 2013 (http://www.maannews.net/arb/Default.aspx). 

2) Applied research Institute-Jerusalem (ARIJ), Monitoraggio delle attività di colonizzazione di Israele, 8 aprile 2013 (http://www.poica.org/editor/case_studies/view.php?recordID=6079) 

3) Come esempio, l’Israel Academy of Science and Humanities, di cui fanno parte 108 tra i più noti docenti di Israele non ha un solo membro arabo. Le università assumono solo un gruppetto di docenti arabi, da uno a cinque, per ricoprire le posizioni più alte (cfr. rapporto su ”Haaretz” (12 settembre 2013). I palestinesi in Israele sono circa il 20% della popolazione. 

4) Per esempio, da quando l’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza iniziò nel 1967 e fino all’inizio del 2012, Israele ha demolito circa 27.000 case palestinesi e altre strutture cruciali per la vita di una famiglia, secondo statistiche governative israeliane (compilate dalla Commissione Israeliana Contro la Demolizione delle Case). Quasi la metà di queste sono state effettuate negli ultimi 12 anni (vedi, Michelle Woodward, “Demolizione della Palestina”, Jadaliyya, 19, Settembre 2012. Secondo Btselem (Il Centro di Informazione Israeliano per i Diritti Umani nei Territori Occupati) nelle prigioni israeliane ci sono circa 4828 palestinesi detenuti per motivi di sicurezza e prigionieri. Nel 2008 il numero era di 8 mila(http://www.btselem.org/statistics/detainees_and_prisoners) 

5) La ribellione di Dhahir Al-Omar al-Zidani alla fine del diciassettesimo secolo per l’autonomia dal governo ottomano (ben celebrata nel romanzo Le lanterne del Re di Galilea di Ibrahim Nassrallah. 

6) Un'indagine demoscopica del luglio 2013 indica che la maggioranza (il 52% rispetto al 45% di favorevoli) dei giovani (tra i 18 e i 30 anni) in Cisgiordania e nella striscia di Gaza sono contrari a uno Stato palestinese in Cisgiordania (includendo Gerusalemme) e nella Striscia di Gaza, in linea con l'opinione pubblica generale (vedi: Mondo arabo per la ricerca e lo sviluppo (Awrad); indagine demoscopia pubblicata il 12 agosto (www.awrad.org). 

7) Il rapporto afferma che “l'elevato tasso di crescita della popolazione aggiungerà altre 500.000 persone a un'area ristretta e già pesantemente urbanizzata. Le necessarie infrastrutture elettriche , idriche e fognarie, i servizi municipali e sociali stanno facendo fatica a tenere il passo con le necessità di una popolazione in aumento;” e aggiunge ”entro il 2020 la fornitura di elettricità dovrà essere raddoppiata per soddisfare la domanda; senza un’azione che ponga subito rimedio, il danno alle coste acquifere sarà irreversibile e saranno necessarie centinaia di nuove scuole e maggiori servizi sanitari per una popolazione costituita per lo più da giovani”. Il rapporto aggiunge: “Oggi mancano decine di migliaia di unità abitative”. (cfr. notizie delle Nazioni Unite, 27 agosto 2012: http://www.un.org/apps/news/story.asp?NewsID=42751) 

8) Ehud Olmert, ex Primo Ministro israeliano disse che il fallimento di uno Stato Palestinese avrebbe provocato una situazione in cui Israele si sarebbe trovata “di fronte a una lotta simile a quella sudafricana per il diritto di voto per tutti e non appena ciò accadesse, lo Stato di Israele sarebbe finito”. Il Ministro della difesa Ehud Barak, fu più chiaro quando commentò: “Se e fino a quando tra il Giordano e il mare, c’è solo un’entità politica, chiamata Israele, finirà per essere o non ebrea o non democratica…Se i palestinesi votano alle elezioni, è uno Stato bi-nazionale e se non votano è uno stato di apartheid (citato da Noura Ejkarat “Lotta per l’eguaglianza avanti”, Jadaliyya, 27 agosto 2011. 

9) Il concetto dell’economia palestinese è virtuale nel migliore dei casi perché non c’è alcuna moneta Palestinese (lo shekel israeliano, il dinaro Giordano, il dollaro USA sono le monete comuni utilizzate), nessuna banca centrale, nessun mercato unificato (ci sono tre mercati; uno ad est di Gerusalemme, uno nella rimanente West Bank e uno nella striscia di Gaza); nessuna autorità centrale (ma tre); nessun controllo sul commercio, e nessun controllo delle risorse naturali o dei confini. 

(Traduzione a cura di ISM-Italia)