Palestina, la battaglia degli olivi

L’Indro
30.10.2013
http://www.lindro.it/politica/2013-10-30/106063-palestina-la-battaglia-degli-olivi

Distrutti 4mila alberi

Palestina, la battaglia degli olivi

Simbolo popolare, è minacciato da attacchi dei coloni e politiche delle autorità israeliane 

di Emma Mancini

Husan (Cisgiordania) –Quest’anno il raccolto sarà inferiore a quello dell’anno scorso. Raccogliemmo 3mila chili di olive, mille litri di olio”. Shirin, giovane donna del villaggio di Husan, ci accompagna nell’uliveto della sua famiglia. Parte delle terre di sua proprietà sono state confiscate dalle autorità israeliane per la costruzione di una colonia, Beitar Illit, e di una base militare. Le terre che restano sono divise dall’insediamento da una rete e un cancello; spesso i coloni aggrediscono la sua famiglia durante la stagione del raccolto, per cui quest’anno ad aiutarla c’è un gruppo di internazionali.

Se ci sono degli internazionali con noi, è più difficile che ci attacchino – continua Shirin, mentre versa il caffè – Di solito i coloni vengono, ci insultano, ci tirano pietre. A volte l’esercito interviene, ma solo per dar man forte ai coloni”. 

Per la costruzione della colonia e della bypass road 375 (strada riservata ai coloni israeliani) che collega Gerusalemme a Beitar Illit, il governo israeliano ha confiscato 100 dunam (un dunam è pari a mille metri quadrati) di terre di proprietà della famiglia di Shirin: “Il cancello è stato costruito circa dieci anni fa, le chiavi le hanno i soldati. Dall’altra parte della bypass road c’è un altro appezzamento di nostra proprietà. Siamo autorizzati a raggiungerlo, ma se prima ci impiegavamo cinque minuti, ora dobbiamo fare il giro dell’intero villaggio”. 

Husan è un villaggio contadino: circa 5.500 abitanti che vivono dei prodotti della terra.Grazie a quattro diverse sorgenti d’acqua, le terre sono fertili e ogni famiglia vive del proprio appezzamento agricolo. Dopo gli Accordi di Oslo del 1993, il villaggio è stato diviso: il 12,6% è in Area B (sotto il controllo civile palestinese e militare israeliano) e l’87,4% in Area C (sotto il totale controllo israeliano). Dal 1967, inizio dell’occupazione militare della Cisgiordania, Husan ha subito la confisca di quasi la metà delle sue terre, a favore della colonia di Beitar Illit, costruita nel 1985, e di quella di Hadar Betar, una base militare israeliana, due checkpoint militari e della bypass road 375, che ha diviso il villaggio in due, impedendo l’accesso a una buona parte delle terre agricole dei residenti. Negli anni, l’esercito ha distrutto 1.500 alberi di ulivo, 2.500 viti e 3.500 alberi da frutto (dati del Consiglio municipale di Husan, 2009). 

La storia di Husan è molto simile a quella di tanti altri villaggi palestinesi della Cisgiordania, tradizionalmente agricoli, ma che negli anni hanno perso gran parte delle loro fonti di sostentamento primarie a causa delle politiche di occupazione israeliane. Politiche a cui si aggiungono, in particolare durante la stagione del raccolto delle olive, ad ottobre, le aggressioni dei coloni israeliani. La più grave delle ultime settimane si è verificata il 19 ottobre nel villaggio di Qaryout, vicino Nablus: un gruppo di coloni dell’insediamento di Aliyah ha distrutto oltre cento ulivi, lasciando sei famiglie del villaggio prive della  loro principale entrata economica. 

Secondo i dati forniti dall’Autorità Palestinese, quattromila alberi di ulivo sono stati distrutti o danneggiati nel 2013, 7.500 quelli sradicati nel 2012 (dati Onu). Per questo il governo di Ramallah, quest’anno, ha deciso di intervenire: il primo ministro ad interim Rami Hamdallah ha annunciato che il suo governo pianterà 750mila alberi nel corso del prossimo inverno. 

Un passo necessario a salvaguardare uno dei principali mezzi di sostentamento di un popolo tradizionalmente contadino, per cui l’ulivo è il simbolo della terra e delle radici. Continuare a coltivare la terra e a produrre olio di oliva è, per il popolo palestinese, un mezzo per resistere all’occupazione e riaffermare la propria appartenenza al territorio. La stagione della raccolta è spesso motivo di festa: la famiglia si riunisce all’ombra degli uliveti e trascorre giornate intere nei campi, tra caffè e pranzi preparati sul fuoco. 

Non è un caso che le aggressioni dei coloni si verifichino proprio durante la stagione del raccolto e che le politiche di occupazione vadano a colpire le terre agricole, in particolare quelle al confine. Ad oggi, secondo dati dell’Ong Oxfam, sono quasi 10 milioni gli ulivi in Cisgiordania: una buona annata può portare ad un guadagno totale di oltre cento milioni di dollari, il 25% della produzione agricola nei Territori Occupati, il cui 80% di territorio è piantato ad uliveti. 

Dall’altra parte, però, stanno dati drammatici: negli ultimi 45 anni, dal 1967 ad oggi, coloni e autorità israeliane hanno distrutto, bruciato o sradicato un milione e duecentomila alberi di ulivo. Quasi 550mila quelli perduti per la costruzione del Muro di Separazione e la conseguente annessione del 18% della Cisgiordania allo Stato di Israele. Al resto pensano i 73 checkpoint agricoli, che molti contadini sono oggi costretti ad attraversare ogni giorno per raggiungere le proprie terre rimaste dall’altra parte del Muro. 

Il calo della produzione e gli alti costi hanno provocato negli anni un’impennata del prezzo dell’olio di oliva palestinese, che ha perso così competitività all’interno del mondo arabo, tradizionale meta di esportazione. Conseguenze che hanno colpito l’intero settore agricolo, fino a qualche decennio fa il più forte all’interno dell’economia palestinese. Oggi la produzione agricola rappresenta meno dell’8% del PIL: il mancato controllo della terra e delle risorse idriche, la perdita di competitività e quindi di ricavi, le difficoltà di movimento all’interno dei Territori Occupati hanno spinto molte famiglie palestinesi a lasciare le terre e a cercare lavoro o nel settore pubblico palestinese (oggi l’ANP è il principale datore di lavoro in Cisgiordania) o in Israele e nelle colonie israeliane. 

Per tale ragione sono numerose le campagne locali e internazionali volte a riportare la terra al centro. Tra queste JAI-YMCA, che pianta alberi di ulivo nelle terre più a rischio e poi sostiene i contadini nella raccolta: “Durante le campagne – ci spiega Kristel Denise, coordinatrice del progetto – portiamo gruppi di internazionali sul posto per aiutare i contadini a piantare alberi e a raccogliere le olive. Una sorta di protezione: i soldati e i coloni evitano di aggredire le famiglie palestinesi se ci siamo noi. In genere operiamo nei terreni minacciati di confisca o in quelli al di là del Muro. Israele applica nei Territori Occupati un’antica legge ottomana: se non si utilizza la propria terra per un periodo di 3-5 anni, questa può essere confiscata. Ai contadini è spesso impedito l’accesso ai propri appezzamenti da barriere, dai checkpoint e dal Muro. Così, non potendo raggiungere le proprie terre, rischiano di farsele confiscare”. 

È vero, Israele rilascia permessi di ingresso nelle terre al di là del Muro ai palestinesi proprietari – continua Kristel – ma sono permessi individuali, ovvero un solo membro della famiglia può accedervi. Come farebbe un solo contadino a portare a termine in tempo l’intero raccolto prima che marcisca? Per questo noi internazionali, che possiamo accedere al di là del Muro, in territorio israeliano, li aiutiamo”. 

Un atto concreto che spesso è però un palliativo. Impossibile coprire l’intero territorio, impossibile evitare la distruzione e la confisca di interi appezzamenti di terre in Area C, il 60% della Cisgiordania. La stessa Banca Mondiale ha avvertito del pericolo: senza le restrizioni israeliane in Area C, il PIL dell’Autorità Palestinese aumenterebbe del 35%, di 3,4 miliardi di dollari l’anno. «Senza la possibilità di utilizzare il potenziale economico dell’Area C, lo spazio di produzione si riduce e si frammenta – ha scritto nel suo ultimo rapporto la Banca Mondiale – La sospensione delle numerose restrizioni israeliane permetterebbe di trasformare l’economia e di avviare uno sviluppo sostanziale e sostenibile». 

Basti pensare che, come calcolato dall’istituto internazionale, 32.640 ettari di terra in Area C sono di proprietà palestinese (contro i 18.700 confiscati e annessi alle colonie israeliane). Ma il mancato controllo delle risorse idriche e della libertà di movimento impedisce l’utilizzo pieno degli appezzamenti, riducendo drasticamente la produzione: «Se i palestinesi avessero pieno accesso a terre e risorse idriche, il PIL  agricolo aumenterebbe di 704 milioni di dollari l’anno, il 7% del PIL totale» 

Numeri consistenti che, se concretizzati, potrebbero rendere L’economia palestinese indipendente da quella israeliana e potrebbero portare ad un significativo e sostenibile sviluppo economico interno.