La goccia che ha fatto traboccare il vaso: perché ho iniziato a sostenere il BDS

“La goccia che ha fatto traboccare il vaso: perché ho iniziato a sostenere il BDS”

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18 giu 2015

Dopo le elezioni israeliane e il divieto di entrare in Cisgiordania per un viaggio di lavoro, Abdalhadi Alijla, direttore per i Paesi del Golfo del Varieties of Democracy Institute dell’Università di Gothenburg, ha deciso di aderire al boicottaggio. E in quest’articolo spiega perché.

 

di Abdalhadi Alijla 

Roma, 18 giugno 2015, Nena News – Alla fine, sono i fatti a parlare. La gente, attraverso i social network, li condivide, gli scrittori e i giornalisti li raccontano e li descrivono, gli storici li contestualizzano, gli studiosi di scienze sociali li analizzano, i filosofi e gli intellettuali li interpretano. A volte, possono passare anni, anche secoli, prima che se ne abbia una piena comprensione.

Nelle ultime settimane, Israele e le agenzie internazionali hanno dato ampio spazio al movimento per il Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) che si oppone all’occupazione israeliana, con un flusso di notizie quasi quotidiano. Il BDS è stato fondato dai palestinesi nel 2005, per spingere Israele a porre fine all’occupazione della loro terra, attraverso azioni non violente. All’epoca, Israele non aveva dato peso al movimento, anzi, lo aveva quasi irriso, sostenendone l’inefficacia.[1]Oggi, invece, l’estrema destra e i Sionisti lo considerano una minaccia concreta e dichiarano guerra ai suoi attivisti.[2]Tra gli obiettivi dichiarati del movimento, ci sono la fine dell’occupazione e della colonizzazione dei territori arabi e la distruzione del Muro; il pieno riconoscimento dei diritti fondamentali dei cittadini Arabi Palestinesi che vivono in territorio Israeliano; il rispetto, la protezione e la conquista del diritto al ritorno nelle loro terre e nelle loro case da parte dei rifugiati Palestinesi, come sancito dalla risoluzione 194 delle Nazioni Unite.

L’idea di base del BDS come forma di lotta non violenta è degna di ammirazione e la delusione che ha portato a invocare il boicottaggio ha radici comprensibili; dopo oltre quindici anni di negoziazioni, l’espansione coloniale è proseguita, la segregazione è ancora più marcata, il razzismo ai danni dei cittadini palestinesi in Israele si è ulteriormente diffuso, è stato costruito il muro dell’apartheid, si è inasprito l’assedio della Striscia di Gaza e migliaia di Palestinesi sono stati uccisi; pertanto, si è resa necessaria una nuova strategia, per fare in modo che Israele paghi per le sue politiche e per promuovere una convivenza pacifica tra gli Israeliani e i Palestinesi.

A lungo, ho dimostrato un certo scetticismo nei confronti del BDS e della sua concreta capacità di portare a termine gli obiettivi che si era prefissato. Ero contrario al boicottaggio dei prodotti e degli accademici israeliani per la mancanza di sostegno da parte dei governi occidentali e delle organizzazioni della società civile. Inoltre, temevo che, in realtà, ci fosse da parte del BDS il tentativo di convincere i Palestinesi a collaborare con gli Israeliani, che negano i diritti essenziali dei rifugiati in diaspora, e che questa fosse una strada ufficiosa e alternativa perseppellire per sempre la questione del diritto al ritorno. In effetti, mi sembrava che l’ambiguità insita negli obiettivi del BDS rivelasse tutta la sua debolezza. Invece, a distanza di anni, credo che si tratti di un punto di forza, perché mette d’accordo i fautori della one-state solution, da me caldeggiata, con i sostenitori della teoria dei “due popoli, due stati”.   

Personalmente, non mi definisco un attivista filopalestinese; sono Palestinese perché Palestinesi erano i miei genitori, da cui ho ereditato la storia, la cultura e la sofferenza del mio popolo. E applico la mia nozione di “Palestinismo” a ogni uomo o donna che si ritrovi a difendere e a lottare dalla parte degli oppressi contro la violazione dei diritti umani, in ogni parte del mondo.   

Ho cambiato sostanzialmente parere nel mese di marzo, quando mi sono recato in Medio Oriente per un importante viaggio di lavoro, nella mia qualità di accademico svedese-palestinese, nato nella Striscia di Gaza. Ricopro il ruolo di direttore regionale per i Paesi del Golfo presso il Varieties of Democracy Institute (V-dem)[3]dell’Università di Gothenburg (istituto che cura il più importante progetto di misurazione dei parametri relativi alla democrazia); sono visitingscholar presso la stessa Università e Direttore dell’Institute for Middle East Studies (IMESC)[4], think tank indipendente con sede a Toronto, in Canada. Lo scopo del mio viaggio in Medio Oriente, a marzo, era la costruzione di una rete di cooperazione tra le istituzioni accademiche della regione, che comprendesse l’Egitto, la Giordania e la Palestina.

Dopo una serie di fruttuosi incontri in Egitto e in Giordania, ho provato ad attraversare l’Allenby Bridge (unico valico tra la Cisgiordania e il resto del mondo): avrei dovuto incontrare studiosi, ricercatori indipendenti e docenti presso le tre principali istituzioni universitarie della West Bank.

L’attraversamento della frontiera non avrebbe dovuto comportare problemi, in virtù della mia cittadinanza svedese. Sebbene l’esercito, l’intelligence e le agenzie di sicurezza di Israele conoscano bene il mio profilo, hanno voluto ricordarmi quanto sia terribile rimanere in attesa, essere interrogato e trattato in modo disumano. Ho subito vessazioni orribili, intollerabili e inaccettabili da parte delle autorità israeliane. Mi hanno tenuto per oltre sette ore in una stanza, sottoponendomi a reiterati interrogatori da parte dello Shabak, dello ShinBeit, dell’esercito, dei funzionari di polizia di frontiera e dei funzionari civili, con domande sulla mia persona, la mia famiglia, lo scopo della mia visita, il mio arrivo in Svezia e la mia infanzia.

Alla fine, mi hanno negato l’accesso in Cisgiordania come misura di prevenzione dell’immigrazione clandestina (sembra uno scherzo, ma è proprio così: immigrazione clandestina!!); la seconda motivazione addotta era questa: “ragioni di sicurezza e ordine pubblico”. Come potrebbe un accademico, da lungo tempo portavoce di istanze di pace, risultare una minaccia? La mia penna è così pericolosa? O sono pericolose le mie origini palestinesi?

Questa è solo una delle ragioni che mi hanno indotto ad appoggiare il BDS. L’altra riguarda le recenti elezioni in Israele. La scelta della coalizione di estrema destra guidata da Netanyahu indica che la società israeliana si schiera inequivocabilmente dalla parte del razzismo, della discriminazione, dell’occupazione dei vicini Palestinesi.La mia esperienza con le forze di sicurezza israeliane, combinata all’analisi ponderata delle tendenze che hanno orientato il governo israeliano negli ultimi tre anni, mi ha indotto, da un punto di vista intellettuale e morale, a sostenere il boicottaggio. Ma cosa mi spinge a credere che possa essere efficace?

Sarà impossibile raggiungere una condizione di convivenza pacifica finché saranno condotte politiche arbitrarie e discriminatorie che non consentono la promozione del dialogo attraverso una molteplicità di canali, nella Striscia di Gaza così come in Cisgiordania. Negando l’accesso agli accademici e agli studenti Palestinesi, impedendo loro di viaggiare per motivi di studio, Israele incita alla violenza e non fa che aumentare il sentimento di frustrazione già diffuso tra i Palestinesi.

Non ci sarà alcuna pressione politica efficace su Israele da parte della comunità internazionale. Bisogna fare pressione singolarmente su ogni elettore israeliano. Ogni cambiamento inizia dalla base della società. I cittadini inizieranno a opporsi alle politiche discriminatorie del governo israeliano solo quando queste comporteranno, per loro stessi, un danno effettivo. Quando a un accademico israeliano sarà impedito di partecipare a una conferenza o di pubblicare su una rivista accademica a nome della sua istituzione, forse capirà cosa significhi la privazione di diritti a cui sono sottoposti i colleghi Palestinesi e ne comprenderà la sofferenza. Lo stesso discorso vale per gli imprenditori che investono nei territori occupati e vendono i loro prodotti in Europa e negli Stati Uniti, che dovrebbero essere sanzionati per la loro condotta sleale.

Il BDS resta l’unica arma a disposizione per i Palestinesi, i sostenitori della causa e gli attivisti internazionali che auspicano una risoluzione pacifica del conflitto, per fermare la palese violazione dei diritti umani nei territori Palestinesi. Le attività del BDS vanno ampliate per coinvolgere il maggior numero di persone possibile e dire forte e chiaroa tutti i cittadini israeliani che il comportamento ai danni dei Palestinesi ha uno scotto da pagare. Le Nazioni Unite, l’Unione Europea e gli Stati Uniti continuano a voltare le spalle al popolo Palestinese, che non può essere lasciato da solo nella sua lotta. Forse ci vorranno dieci o venti anni per vedere i primi risultati, ma si è già perso un ventennio cercando di trattare per ottenere la propria fetta di torta (la Cisgiordania): in realtà, Israele l’ha divorata, lasciando ai Palestinesi solo le briciole. Tutti i cittadini israeliani devono subire gli effetti del boicottaggio: solo così, cambieranno idea e si renderanno conto che la loro esistenza si fonda sulla tranquillità e sul benessere e che a pagarne il prezzo  sono i loro vicini. Non ci sarà mai vera pace con uno Stato che si considera al di sopra del diritto internazionale.

Traduzione di Romana Rubeo

[1]http://www.pij.org/details.php?id=1447

[2]http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4663436,00.html

[3]https://v-dem.net/en/team/regional-managers/

[4]http://www.imesc.org/#!staff/ccwj

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