Sul campo di calcio la Palestina sfida Israele e Anp

Sul campo di calcio la Palestina sfida Israele e Anp

Territori Occupati. La prima partita dopo 15 anni tra un team della Cisgiordania e uno di Gaza riaccende la speranza di unità. Intervista all'allenatore italiano Cusin, mister della squadra di Hebron

Chiara Cruciati Il Manifesto 8.8.2015

È finita a reti invio­late la par­tita dell’anno in Pale­stina, un match che ha sfi­dato le divi­sioni in enclavi impo­ste dall’occupazione israe­liana e la debo­lezza strut­tu­rale dell’Autorità Nazio­nale Pale­sti­nese. Due mesi fa la Feder­cal­cio pale­sti­nese e il suo lea­der, il vec­chio falco di Fatah Jibril Rajoub, rinun­cia­vano alla cosid­detta l’Intifada del Pal­lone: la richie­sta di sospen­sione di Israele dalla Fifa.

Gio­vedì a Gaza, nello sta­dio al-Yarmouk (chiaro rife­ri­mento al dramma dei pro­fu­ghi pale­sti­nesi), sono state le due squa­dre vin­ci­trici dei rispet­tivi cam­pio­nati a ricor­dare che le vio­la­zioni israe­liane con­tro lo sport pale­sti­nese sono più vive che mai. Al-Ahly Hebron e Itti­had al-Shajaya hanno rotto un digiuno lungo 15 anni: dal 2000 a Gaza non gio­cava un team della Cisgiordania.

«Dove­vamo gio­care il 4, ma la par­tita è slit­tata al 6 per­ché Israele non rila­sciava i per­messi per entrare a Gaza – spiega al mani­fe­sto Ste­fano Cusin, alle­na­tore ita­liano da 8 mesi impe­gnato sulla pan­china dell’Al-Ahly Hebron – Quando final­mente siamo entrati l’accoglienza è stata fan­ta­stica. Siamo stati rice­vuti dalla squa­dra di Sha­jaya, ci siamo alle­nati insieme. Abbiamo attra­ver­sato il quar­tiere di Sha­jaya, il più col­pito dall’attacco mili­tare dello scorso anno: case demo­lite, edi­fici crol­lati. Un impatto emo­tivo for­tis­simo: ogni casa distrutta è una fami­glia distrutta».

Da quel quar­tiere arriva la squa­dra vin­ci­trice del cam­pio­nato gazawi, il team di Sha­jaya, «la più forte della Stri­scia per­ché, anche sotto le bombe, ha con­ti­nuato ad alle­narsi». Un entu­sia­smo verso lo sport che l’intera Stri­scia ha dimo­strato gio­vedì: in 7mila si sono river­sati nello sta­dio al-Yarmouk fin dalle prime ore del mat­tino, sotto il sole di ago­sto, in attesa del fischio d’inizio alle 17. Bam­bini, gio­vani, anziani, sti­pati negli spalti coperti da cen­ti­naia di ban­diere pale­sti­nesi, men­tre mille poli­ziotti di Hamas erano intenti a seguire il match da bordo campo.

La par­tita di andata è finita in pareg­gio, 0–0. Ci si gioca la Coppa di Pale­stina, chi vince vola all’Asian Con­fe­de­ra­tion Cup. Ma di nuovo in mezzo c’è l’assedio, la vio­la­zione quo­ti­diana della libertà di movi­mento: il ritorno si dovrebbe gio­care a Hebron domani. Le due squa­dre aspet­tano che anche sta­volta val­gano a qual­cosa le pres­sioni della Fifa, che hanno costretto Israele a far entrare a Gaza il team di Hebron.

«Sem­bra che la Fifa si stia muo­vendo – ci dice Cusin – Il ritorno si potrebbe gio­care lunedì o mar­tedì. Sem­brava non si potesse per­ché a 4 gio­ca­tori gazawi e a 5 diri­genti non sono stati con­cessi per­messi di uscita. Lunedì alcuni miei gio­ca­tori avreb­bero dovuto unirsi alla Nazio­nale, ma se si dovesse gio­care aspet­te­ranno: que­sta par­tita, la Coppa di Pale­stina, è molto più importante».

È impor­tante per­ché sim­bo­lica e lo spiega bene il mister ita­liano: la gara di gio­vedì andava oltre il risul­tato, la tec­nica o la tat­tica. Era una que­stione di unità tra pale­sti­nesi, di futuro e spe­ranza: «I cam­pio­nati di Gaza e Cisgior­da­nia sono sepa­rati per­ché gli israe­liani vie­tano gli spo­sta­menti da un’enclave all’altra. Ma qui si tratta del diritto di gio­care a cal­cio. La domanda è: è un diritto fare sport? Io penso di sì. Per que­sto dico che sono stati giorni bel­lis­simi: per loro che vivono chiusi qua e non pos­sono con­fron­tarsi con altre realtà, avere l’Al-Ahly era come ospi­tare il Real Madrid. Gaza ha voglia di vita, di nor­ma­lità. Sono un uomo di sport e non fac­cio poli­tica ma è stato dav­vero bello: la loro acco­glienza, il dopo par­tita. Come un grande abbrac­cio. Si è aperta una porta che spero non si richiuda».